«Apocalisse nella valle del Piave»: l’11 ottobre 1963 La Gazzetta del Mezzogiorno racconta il disastro che si è abbattuto la sera del 9 ottobre nel Vajont, di cui non aveva potuto dare notizia il giorno prima.
«La più alta diga ad arco del mondo, una delle realizzazioni più ardite della tecnica idraulica, è stata anche strumento di uno dei più grandi disastri che si ricordino, certamente il più grande nella storia delle dighe», si legge sul quotidiano. Tra il 1957 e il 1963 la morfologia della valle del torrente Vajont era stata profondamente modificata dalla costruzione di una imponente diga a doppio arco.
Un’enorme frana, 260 milioni di metri cubi di terra, precipita la sera del 9 ottobre 1963 nel neo-bacino idroelettrico artificiale dal soprastante pendio del Monte Toc: la conseguente tracimazione dell’acqua provoca l’inondazione e distruzione di diversi abitati tra cui Longarone, e la morte di 1.917 persone, tra cui 487 bambini e ragazzi con meno di 15 anni.
«È cominciato con un cupo brontolio di massi; poi l’immane catastrofe. La frana precipitata nel bacino idroelettrico del Vajont ha provocato – dicevano stasera alla prefettura di Belluno - duemila e duecento morti: sono quelli accertati finora. Di certo ora c’è che il Comune di Longarone e parte delle sue frazioni sono stati cancellati dalla faccia della terra», scrive l’inviato della «Gazzetta» Vittorio Cossato.
La catastrofe poteva essere evitata? È la tragica domanda che si pongono tutti: «L’interrogativo appare giustificato dal fatto che, da tempo, a più riprese, da uno e dall’altro dei due versanti dei monti che concorrono con la diga a formare il lago, sono caduti macigni. Altre volte su l’una e l’altra pendici si sono verificati smottamenti. Le popolazioni, insomma, erano allarmate. Tanto allarmate che il comune di Longarone aveva reso edotto del timore del pericolo il Genio Civile di Belluno. Una commissione anzi è venuta nei giorni scorsi da Roma, ha fatto delle indagini e dei rilievi e poi si è riservata di dare la risposta. Purtroppo questa è la risposta: questa tremenda sciagura», conclude Cossato. Pochi giorni dopo, funzionari del Ministero dei lavori pubblici e alcuni dirigenti della Sade, Società adriatica di elettricità, che si era occupata della progettazione della diga del Vajont, vengono messi in stato d’accusa della magistratura.
Il processo si concluderà nel 1972 con la condanna del dirigente della Sade Alberico Biadene, il quale sconterà un anno e 6 mesi di reclusione, e dell’ispettore del Genio Civile, Francesco Sensidoni.
















