Qui si disfà l’Italia o si muore. Parafrasando la celebre frase di Giuseppe Garibaldi, ecco l’amara sintesi del Consiglio dei Ministri di ieri. In preda a una fretta degna di altre cause, il Governo ha approvato il disegno di legge sull’«autonomia differenziata» del ministro per gli Affari regionali, il leghista Roberto Calderoli. Approvazione, riferisce l’Ansa, avvenuta tra gli applausi. Tornano insomma le stagioni della devolution cara a Umberto Bossi, oltre vent’anni dopo la discussa riforma del Titolo V della Costituzione (2001) e a tre anni dall’inizio della pandemia che ha dimostrato quanto invece sia necessaria una salda guida unitaria. Va in porto la possibilità che alle regioni a statuto ordinario vengano attribuite, in via esclusiva, competenze su un ampio spettro di materie. L’economista barese Gianfranco Viesti ne ha elencate ventitré: da scuola e università a sanità e trasporti, da ambiente ed energia a lavoro e immigrazione...
Esulta la Lega di Salvini, che non ha mai dismesso la vocazione padana delle origini, e con essa gioiscono le regioni che più hanno spinto per l’autonomia: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Presto potrebbero altresì trattenere i singoli gettiti fiscali da spendere in loco, sui rispettivi territori. Chi è ricco, diventerà più ricco. Chi è povero, diventerà più povero. Di fatto il disegno di legge Calderoli dà il la a una musica ribalda: la frammentazione di un Paese in cui lo storico divario Nord-Sud non è mai stato colmato, anzi, negli ultimi decenni si è allargato. A proposito del presunto meccanismo di garanzia offerto, solo sulla carta, dai Lep (i livelli essenziali di prestazione), ha detto bene ieri il presidente pugliese Michele Emiliano: «I Lep non basta scriverli. Bisogna investire 60-70 miliardi di euro in personale e infrastrutture, per consentire al Sud di arrivare ai livelli del Nord».
La fretta, dicevamo. Secondo taluni sarebbe stata dettata dal bisogno della Lega di sventolare un vessillo in vista delle elezioni in Lombardia del 12 e 13 febbraio, recuperando consensi nell’ambito della coalizione di centrodestra data per favorita. Tanto plausibile quanto assurdo, non credete? Ma sono corresponsabili i partiti di opposizione, il Pd in primis, troppo preso dallo psicodramma congressuale per valutare il pericolo incombente. Mentre la «grande stampa» del Nord e la Tv semplicemente parlano poco o nulla di autonomia differenziata, preferendo il ciacolaio sul caso Soumahoro o attualmente sull’allarme-anarchici (pare di esser tornati a fine ‘800).
Il trasferimento dei poteri è già un vulnus per l’idea stessa d’Italia. È un’offesa concreta e simbolica al futuro di una nazione europea che aspira, o dovrebbe aspirare, ad allargare gli orizzonti piuttosto che a restringerli in localismi fobici. Già, la Lega nei suoi esordi si giovò del legittimo sdegno per Tangentopoli («Roma ladrona»), ma anche del panico del Nord di non farcela ad entrare nel mercato comune europeo, come scrisse Piero Bassetti (L’Italia si è rotta? Un federalismo per l’Europa, Laterza 1996). Non capiamo invece l’avallo di Forza Italia e di Fratelli d’Italia, gli altri due partiti oggi al Governo, e in particolare non capiamo la premier Giorgia Meloni. Figlia di una cultura politica comunitarista, esponente della destra sociale e «patriottica» da sempre centralista (lo ha ricordato Adriana Poli Bortone su queste colonne), Meloni ha rinverdito nel dibattito pubblico il termine «nazione». L’«idea di nazione» è cruciale, diremmo con il titolo di un classico dello storico Federico Chabod che guardava all’equilibrio tra i caratteri profondi del paese e l’anelito europeo.
Non è un dogma, l’Italia. Caso mai è riconoscersi in una luce, in un patto mai urlato eppur stretto da uomini e donne, tra monti e mari; tra Cavour e Garibaldi, se volete. E ora? Tanto parlare di patria per poi minarla alle radici?