È appena uscito «Prima che tutto torni buio. Scritti di cinema», volume antologico postumo di Nicola Curzio (Laterza - Edizioni della Libreria, pp. 204, euro 12,00). Il libro sarà presentato il 24 dicembre al Kursaal Santalucia di Bari alle 11. Introducono il governatore Michele Emiliano e l’editore Alessandro Laterza. Dialogano il direttore della «Gazzetta» Oscar Iarussi e il critico cinematografico Matteo Marelli. Letture di Caterina Filograno. Al pianoforte Francesco Schepisi.
Ne pubblichiamo qui la prefazione di Oscar Iarussi, «Una luce, questo libro»
Ci sono libri che fanno venire in mente dei luoghi. E luoghi che rimandano a certi film non proprio popolari, per fortuna, giacché si è assaliti dalla voglia di custodirli contro la possibile «profanazione». Ogni cinefilo ha provato almeno una volta l’indicibile gelosia per una scoperta che non sarà più esclusiva nel momento stesso in cui ne scriverà... E ci sono film rari che qui trovano dimora e senso in pagine non meno preziose, pagine pensose, sospese nel tempo di un giovane critico del cinema e delle idee, nomade fra i saperi e le città, fra Bari e Londra, Siviglia e il Perù, Parigi e Milano. Un «saltatore dei muri» per dirla con Peter Schneider e un «mangiatore di film» alla maniera di Enzo Ungari (due altri libri da leggere).
È scomparso troppo presto Nicola Curzio, a 33 anni, il 4 giugno 2022. «Troppo presto», banale e intollerabile scriverlo, sebbene il Cinema restituisca profondità al concetto di Tempo che rischiamo di ridurre a eterno presente, attimi mediatici sempre eguali, quasi insignificanti nella loro «attualità» per quanto tragica possa essere: la guerra nella sua enormità è lì, poco prima e poco dopo lo show della prima serata, senza alcuno scandalo. Invece il Cinema, arte ancora verde, contribuisce a concretare il mondo vissuto: duplicandolo, lo mostra nella sua autenticità. Un esito paradossale lungo confini inesplorati che Nicola Curzio frequentava e scandagliava con amore (non v’è altra parola: amore).
C’è un molo dalle parti di Foz de Douro, villaggio alla foce atlantica del fiume Douro. Sto ripensando a Nicola, sto ripensando a una vista sull’oceano. Non è un «fuori tema» perché nelle pagine del libro che avete fra le mani sono contemplate molte cose, ma non esiste il fuori tema: se qualcosa appare tale, ecco, siamo esattamente in tema. «Questa intervista non comincia», recita l’incipit di una conversazione di Curzio e Marelli con Mirko Locatelli... Su quel molo si arriva dal centro di Porto con uno dei vecchi tram che oramai sono feticci del passato a uso dei turisti (noi tutti), simulacri degli struggenti film portoghesi dei viaggiatori Alain Tanner, Wim Wenders o Roberto Faenza negli anni ‘80-90. Lo stesso tram c’era sicuramente già da un pezzo quando nel 1942 Manoel de Oliveira, il grande regista portuense scomparso a 106 anni nel 2015, girò il suo primo film neorealistico, Aniki Bóbó, fra i ragazzini di strada nel quartiere della Ribeira sulla sponda del Douro. Sferragliando lungo il fiume, la città resta alle spalle e si stempera lentamente nel finis terrae. Il terrapieno proteso verso il nulla d’un tratto si biforca: da una parte c’è un piccolo faro esagonale perfetto per le pose di Instagram (Farolim de Felgueiras), dall’altra una rotonda sull’oceano cinta da un muretto. Pochi parlano o si baciano, a chi arriva lì in fondo non resta davvero che sedersi e guardare. Cosa, non è facile dirlo: la vastità è assenza, impossibile indovinare altre terre e il concetto di orizzonte è messo a repentaglio dal vuoto. Allora l’istinto spinge a guardare in sé: un’introspezione en plein air, se volete un condominio di fantasmi ai confini dell’ignoto, o, magari, un desiderio di invisibile destinato al fallimento e tuttavia vivido, acuto.
«Filmare l’invisibile, dove solo de Oliveira, forse, era riuscito», annota Nicola Curzio. È l’ambizione ricorrente dei cineasti che ritroviamo negli articoli di questa antologia, fra i quali non pochi sono i lusitani di generazioni diverse: Vítor Gonçalves, Miguel Gomes, Gonçalo Tocha, João Nicolau. Chi scrive di loro fa cinema non meno di loro. In particolare, analizzando il magnifico Tabu di Gomes (2012), Nicola Curzio evoca «la saudade dello sguardo» e per definire meglio «il termine chiave di tutta la lingua e la cultura portoghese» cita il passo in cui Antonio Tabucchi l’avvicina al «desìo» dantesco, «che nello strazio reca una tenera dolcezza». In filigrana il sentimento sembra appartenere al giovane critico, a suo modo «un esploratore immobile», come quello della prima immagine di Tabu. Immobile davanti allo schermo nelle sale e nei festival che egli amava, la Mostra di Venezia in primis, eppure mobilissimo, febbrile, inesausto nella ricerca. Atletico, per dirla con la celebre poesia di Vladimir Majakovskij: «Per voi il cinema è spettacolo. / Per me è quasi una concezione del mondo / [...] Il cinema demolisce l'estetica / Il cinema è audacia / Il cinema è un atleta».
Negli scritti visionari qui raccolti, Nicola Curzio ha fatto in tempo a definire una personale dialettica degli opposti, un paesaggio tanto immaginifico quanto realistico, un’antropologia culturale e politica dei nostri anni, pregna di una evidenza che, ha ragione Jean-Luc Nancy nel suo studio dedicato a Kiarostami, coincide con lo svuotamento, con un’assenza: l’évidence du film che il filosofo francese apparenta a évider, «svuotare». Ed è Rohmer a ricordare che il cinema non rappresenta la realtà, la scopre. Il cinema prediletto da Nicola è denudazione e discernimento, esercizio di realtà e concezione del mondo (senza «quasi»). Decostruzione, fantasia, ribellione, ricomposizione, amore, di nuovo amore. Warburg, Morin, Derrida, Nancy, Augé, Calvino, Ghezzi, Montani, coniugati con Cassavetes, Egoyan, Ferrara, Naderi, Diaz, Tsukamoto, Noé, Ferrara...
La saudade, dunque, non è semplice nostalgia né pura malinconia, aggiunge Curzio, che alfine ricorre giusto a Manoel de Oliveira per scolpirne la definizione: «significa che l’armonia si realizza con l’aiuto dei sentimenti contrari [...] intraducibile nel mondo attuale, viene voglia di tradurla con “speranza”. Una speranza metafisica, filosofica, religiosa nel senso più ampio [...] Qualcosa che sta tra la disperazione che si prova nel mondo e la terribile voglia di vivere».
Una luce, questo libro.