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Salam-Shalom Quel miracolo sulla collina

 
Dorella Cianci

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Dorella Cianci

Salam-Shalom Quel miracolo sulla collina

Martedì 23 Settembre 2025, 16:56

Neve Shalom – in arabo Wahat al-Salam, è un posto unico, ma non irripetibile. È un luogo che, prim’ancora di essere un luogo, rappresenta un modello di vita impostato sul dialogo, sull’accoglienza e su un concetto semplice e complesso: l’altro. Chi è l’altro in questo villaggio? Qualcuno come me e diversissimo da me, qualcuno da cui imparare e a cui insegnare. Utopia? Certo che no. Da 50 anni lì ci abita una comunità binazionale, quella ebraica e quella palestinese, dimostrando, giorno dopo giorno, come sia possibile vivere insieme, se alla base della convivenza ci sono dei buoni ingredienti: rispetto reciproco, accoglienza e dialogo. Su una piccola collina tra Tel Aviv e Gerusalemme, quest’oasi di pace porta il doppio nome, in ebraico e in arabo, per rispettare le due popolazioni che la abitano. La sfida delle cento (e più) famiglie che oggi compongono il villaggio è proprio quella di dimostrare che si può vivere insieme, perseguendo l’uguaglianza, la democrazia, la parità di diritti, rispettando entrambe le culture e le lingue, cancellando ogni privilegio di parte. Questo straordinario Villaggio è sorto su un terreno del vicino monastero trappista di Latrun, concesso nel ‘69 al fondatore della comunità, il padre domenicano Bruno Hussar, ebreo convertitosi al cristianesimo e cittadino israeliano. Il suo obiettivo era – ed è – quello di trasformare in un’oasi di pace un luogo di convivenza quotidiana tra due popoli, di fatto in guerra, dal ‘48. Grazie a Giulia Ceccutti e al suo libro, possiamo conoscere, ancor meglio, in Italia, che cosa rappresenta questo Villaggio e, soprattutto, che cosa ha da dirci in queste ore così drammatiche. Nelle prime pagine del bel libro in questione, c’è un capitoletto scritto dal sindaco della comunità, Eldad Joffe: «Gli eventi del 7 ottobre e le loro conseguenze hanno avuto un profondo impatto sia sugli ebrei, qui da noi, che sugli arabi, ma soprattutto sulla relazione fra i due popoli. Il perdurare della violenza, senza una soluzione chiara in vista, è sconfortante. Dominano sentimenti di disperazione e impotenza, accompagnati da rabbia e scoraggiamento. [...] Tuttavia rimaniamo uniti. Continuiamo a sostenerci a vicenda, a lavorare insieme e a prenderci cura gli uni degli altri». Ci sentiamo grati verso Giulia Ceccutti per questo libro, che - raccogliendo le voci del Villaggio attraverso interviste e conversazioni, svolte in parte fra giugno e gennaio del 2025 - ci aiuta a ricostruire il senso dell’alterità e il valore che dietro questo termine si può affidare a un altro termine-chiave: la persona. Il tanto orrore di queste ore ci fa essere spettatori di una catastrofe indicibile, documentata a tratti, viste le notevoli difficoltà a cui sono sottoposti i giornalisti, fra cui tanti morti proprio nella Striscia. Dinanzi a questa catastrofe, vediamo sfilacciarsi, sempre di più, il valore che conferiamo all’altro, mentre si afferma, in maniera neanche tanto velata, che alcune vite valgono più di altre, alcune vite meritano la loro terra, la pace, il cibo, il benessere, la ricerca, la scienza... E le altre? Altre vite sono in balia dello sterminio. Ceccutti ci mette sotto gli occhi una realtà complessa e funzionante. Il suo libro ci offre un respiro, un modo per immaginare il futuro, anche se ora, dinanzi ai carri armati dentro Gaza City, la speranza della pace appare impossibile. E invece il Villaggio su quella collina israeliana è già un altro modo di guardare alle persone, alla loro storia, alla loro religione. Ovviamente non dobbiamo immaginare soluzioni facili. E, anche per questo, è molto apprezzabile la nota introduttiva per il lettore, posta all’inizio del testo, dall’autrice, che ci ricorda come quest’Oasi si trova a ovest di Gerusalemme e i suoi abitanti, ebrei e arabi, sono tutti cittadini israeliani. È bene infatti, anche per chi conosce poco quella storia, tenere a mente alcuni dati basilari: in Israele il 20% della popolazione è rappresentato da arabi palestinesi (musulmani e cristiani), rimasti dentro i confini dopo la creazione dello Stato, nel ‘48. È utile anche notare, scorrendo le testimonianze raccolte, come i protagonisti utilizzano termini molto diversi per far riferimento alla Palestina: Territori occupati, Cisgiordania/West Bank, Striscia di Gaza. Ogni singola definizione porta con sé tutta la specificità e la diversità di un ampio pezzo di storia mediorientale ed è con questa visione complessa che va letto il libro, per evitare banalizzazioni. Fra gli intervistati, colpisce una voce che invoca la speranza e che dice: «Quando penso al futuro di questa terra, di questa comunità, racconto una piccola storia che mi hanno trasmesso. È la storia di quattro candele». Qual è la candela che ci resta impressa, se non la candela della speranza, che tenta di incoraggiare un bambino che piange? Afferma la candela della speranza: «Non devi piangere e non devi perdere la fede. Finché ci sono io a illuminare, c’è la speranza; dalla mia luce prendi luce e accendi le altre tre candele e, così, manterrai la pace, la fede e l’amore. Ma non perdermi».

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