Nei primi mesi del 1960, il batterista afroamericano Max Roach dava alle stampe Freedom Now Suite. We Insist!, un album realizzato in collaborazione con il cantante e paroliere Oscar Brown jr. L’intenzione iniziale era di farlo uscire nel 1963, in occasione del primo centenario dell’abolizione della schiavitù, ma gli eventi razziali verificatisi nel corso degli Anni ’50, che portarono l’America a sfiorare una vera e propria guerra civile, lo spinsero ad anticiparne l’uscita. L’eredità di quell’album militante, che a causa del brano Tears for Johannesburg, dedicato al massacro di Sharpeville, venne persino messo al bando in Sudafrica, oggi viene raccolta da una donna, Terry Line Carrington. La sessantenne percussionista del Massachussetts – il cui curriculum vanta collaborazioni di tutto rispetto, da Herbie Hancock a Wayne Shorter e gli Yellowjackets – firma infatti We Insist 2025!, un disco che non è una semplice rilettura, ma un vero e proprio ripensamento in termini musicali e sociali.
Il primo interrogativo che salta alla mente dell’ascoltatore è infatti cosa sia cambiato in questi sessantacinque anni: certo, il Civil Rights Act fortemente voluto da John Fitzgerald Kennedy – e promulgato nel 1963 da Lindon Johnson dopo l’attentato di Dallas – ha abolito la segregazione, riconosciuto agli afroamericani numerosi diritti a lungo negati, ma ancora oggi in America i neri continuano a essere vittime di violenze – e spesso anche a morire – ingiustificatamente. Ecco allora che l’operazione posta in essere dalla Carrington, che firma l’album insieme con la vocalist Christie Dashiell, sembra suggerire un diverso approccio rispetto alla “durezza” di Roach, il cui leggendario carattere poco accondiscendente era sicuramente figlio dei suoi tempi. Qui il disco parla le lingue musicali dell’oggi, si interroga sul presente, senza perdere la consapevolezza di un passato che non va dimenticato e che anzi, talvolta ritorna drammaticamente. Ma al contempo, piuttosto che allo scontro frontale, sembra voler rivolgere un invito alla pratica del cosiddetto “pensiero laterale”, ovvero a una soluzione dei problemi che, senza rinunciare a orgoglio e dignità, sia innanzitutto frutto di confronto e mediazioni che non richiedono grida né pugni sbattuti sui tavoli. Se la difficoltà principale dell’impresa poteva consistere nel confronto con i colori forti, talvolta duramente espressionisti della voce di Abbey Lincoln, la Carrington e la Dashiell hanno saputo aggirare il problema proponendo un approccio decisamente alternativo ai cinque brani dell’album originale ai quali ne hanno aggiunti altri scritti di sana pianta.
Ecco allora che il celebre 5/4 di Driva Man, che rievocava in maniera graffiante la condizione degli schiavi nelle piantagioni, si colora di tinte afro figlie della M-Base Anni ’80, mentre Freedom Day – che nel disco si ascolta due volte in differenti versioni – perde il suo spirito battagliero, ma non certi colori squisitamente jazzistici. All Africa conserva il suggestivo testo di Oscar Brown jr, ma non l’approccio percussivo nel quale Roach aveva pensato di ricomporre i pezzi della diaspora africana, mentre i cambiamenti più significativi si colgono in Triptych, i cui tre movimenti non sono più Prayer, Protest e Peace, ma Resolve, Resist e Reimagine. E già i titoli la dicono lunga. Tears For Johannesburg invece, oltre a conservare lo spirito dell’originale, impegna in un solo al trombone l’anziano Julian Priester, unico superstite della versione del 1960. Passando ai brani di nuova composizione, oltre al percussivo Boom Chick” è inevitabile dire qualcosa su due titoli che si presentano come degli “speech”, discorsi in musica alla maniera di Amiri Baraka, piuttosto che semplici pagine musicali. Sono Dear Abbey, rispettoso, intenso omaggio della Carrington ad Abbey Lincoln – che di Roach fu anche moglie – e Freedom Is…, nel quale si immagina, tra le altre cose, un “mondo senza muri”, con un riferimento nemmeno tanto implicito all’America dei nostri giorni. Concetti ripresi nel conclusivo Joyful Noise che si accende però anche dei ritmi affabulatori del rap e di sonorità hip hop. L’impiego di linguaggi musicali moderni è infatti una delle caratteristiche di questo album che sintetizza efficacemente le principali musiche nere degli ultimi decenni: il jazz senza dubbio, ma anche, tra gli altri, il gospel e il neo soul per approdare a suggestioni metropolitane molto contemporanee. Nell’ampio parco di collaboratori che hanno contribuito alla realizzazione di questo album di “resistenza umana” – impossibile citarli tutti – ricordiamo almeno la trombettista Milena Casado, Simon Moullier a vibrafono e marimba, Morgan Guerin ad ance e basso e Matthew Stevens alla chitarra.