Fo, giullare ribelle
Venerdì 14 Ottobre 2016, 16:12
16:18
di Oscar Iarussi
Un bel film argentino presentato all’ultima Mostra di Venezia, Il cittadino illustre, comincia con la scena di uno scrittore che ringrazia per il Nobel appena ricevuto (lo interpreta Oscar Martinez, che ha vinto la Coppa Volpi). «Questo premio - è il senso delle sue parole nel corso della solenne cerimonia a Stoccolma - contraddice tutto quello che ho cercato di realizzare finora e certifica che sono uno scrittore finito».
Ecco, c’è da augurarsi che il Nobel per la Letteratura non sia un’occasione per monumentare un autore in vita, consentendo ai piccioni di posarsi sulle sue spalle più o meno ampie. Talora accade. A Dario Fo è accaduto. Guru accidentale ed anarchico, improvvisatore brillantissimo e showman versatile in coppia con Franca Rame, drammaturgo militante tradotto e rappresentato in mezzo mondo (mai in Russia), fu premiato nel 1997, ultimo Nobel italiano in campo letterario. Da allora, quindi negli ultimi vent’anni, Fo è invecchiato circonfuso di una venerazione quasi generale, un’aureola resa più luminosa dalla sua recente e convinta adesione alla causa assai pop di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, cui offrì una patente «di sinistra» di incerta validità.
Soltanto qualche irriducibile nemico, come l’ormai innocuo Renato Brunetta, ieri ha osato dir male di Fo, scomparso a 90 anni: «Non mi è mai piaciuto, pace all’anima sua». E torna in mente Indro Montanelli che nel 1997 reagì con un secco «No comment» alla notizia del Nobel attribuito al suo «nemico storico».
Ma in che cosa e di chi Fo sia stato un maestro dopo aver vinto il Nobel, non è facile da dirsi, perché non lo è stato. Negli ultimi lustri ha scritto libri, raccolto memorie, dipinto quadri, fatto apparizioni in scena e in Tv, che non hanno lasciato il segno, se non la scia senile di «un grande avvenire dietro le spalle», per dirla con Vittorio Gassman, narciso aggredito dalla depressione e perciò amabile.
Un intero ventennio testamentario è un po’ troppo anche per un eroe del «politicamente corretto» in voga. Né è stata abbastanza eretica l’opzione politica di Dario Fo per i Cinque Stelle, cioè per un partito potenzialmente maggioritario. Lontani i tempi delle sue recite nelle carceri o alla Palazzina Liberty occupata nel 1974 col collettivo milanese «La Comune», le stagioni tumultuose e felici di Brera e del bar «Jamaica» dove si avvicendavano anche Luciano Bianciardi, Dino Buzzati, Mario Dondero, Giancarlo Fusco, Camilla Cederna, Piero Manzoni... Poi il suo teatro nelle fabbriche prima di abbandonare il Pci e di dare vita - sempre con Franca Rame, scomparsa nel 2013 - al «Soccorso Rosso» in sostegno dei detenuti politici, da Valpreda a Sofri.
È il Fo protagonista di una Milano non da bere e che non la dava a bere come oggi: Milano irregolare e un po’ «svitata», anticonformista e coraggiosa rispetto alla Roma cinica e papalina e «infetta». La città di Dario Fo e di Enzo Jannacci irresistibili quando duettavano in Ho visto un re, di Giorgio Gaber, Adriano Celentano, Cochi e Renato, Beppe Viola... Una capitale «immorale» - viva la faccia! - ovvero libertaria, comunista senza essere stalinista né troppo radical chic. L’altra faccia dell’industria meneghina ancora trainante e dell’impresa non ancora tutta brianzola & brambilla. Milano pre-Lega, pre-Bossi, pre-Berlusconi, pre-regressione nordista.
Lì Dario e Franca erano pura avanguardia, mistero buffo trasmigrato da Carosello e Canzonissima che li censurò nel 1962 alle lotte sessantottine per i diritti del lavoro, il divorzio, l’aborto... Per una generazione, due, forse tre, Dario Fo è stato davvero un punto di riferimento, il contraltare di letture ideologiche troppo severe, il giullare pronto allo sberleffo, l’erede del Ruzante che spinge il letterario di là dalle frontiere della pagina scritta, grazie al ritmo folle della parola, allo sproloquio e alla gestualità del grammelot. In questo «sconfinamento» della letteratura teatrale oltre se stessa, verso un gergo «ibrido» al servizio dell’oralità sovrana in scena, c’è la cifra tutta novecentesca (pensiamo a Gadda) della grandezza di Dario Fo.
Qui stanno il fondamento e la legittimità del Nobel per la Letteratura. Giulio Einaudi, editore delle sue opere, nel 1997 commentò il premio nella chiave della «decostruzione» propria di taluni artisti anti-sistemici o anti-romanzeschi, ovvero frammentari, nomadi, pensosi, circensi. «Dario è uno scrittore di primissimo ordine - disse “il principe” degli editori -, uno che nella mia mente ho sempre paragonato a Fellini».
Ieri l’Accademia Svedese del Nobel ha rinnovato questa tensione assegnando l’onorificenza a Bob Dylan, menestrello folk della cultura alternativa a stelle e strisce, premiato «per aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della tradizione della grande canzone americana». Speriamo che Dylan, 75 anni, non si lasci rinserrare negli abiti del Grande Vecchio e resti forever young, per sempre giovane.