L’ultima insurrezione nell’Alta Murgia del Parco nazionale ha il sapore no global. Il fronte «bio» si schiera contro «Monsanto». Meglio, contro i vertici dell’Ente parco che hanno benedetto la sperimentazione di un diserbante prodotto dalla multinazionale: scatena rischi e danni, per l’ambiente e la salute, dicono, a colpi di lettere, Antonio Camerino, dell’azienda biologica «Poggio Ferrata» di Ruvo, Carlo Caiati, cardiologo dell’Università di Bari, Lorenzo Gusman, dell’Associazione «Coscienza Collettiva», anch’essa di Ruvo, e Patrizia Masiello, presidente regionale dell’Aiab Puglia, (Associazione italiana agricoltura biologica).
Se i contenuti della denuncia allarmano, le controrisposte assicurano. Cesare Veronico, presidente del Parco nazionale Alta Murgia, e Fabio Modesti, direttore, smontano la paura. Ma la denuncia non rimarrà tempesta di mezz’estate.
Un passo indietro. La madre di tutti i problemi è l’eradicazione di ailanthus altissima, l’ailanto, conosciuto come albero del paradiso, che, a dispetto del nome, scatena ovunque l’inferno. È «una tra le più diffuse e dannose specie aliene invasive che colonizzano le aree extragricole. È una specie arborea che si accresce in qualunque tipo di habitat urbano e naturale, creando densi popolamenti monospecifici e causando danni tra cui la perdita della biodiversità», scrivono Francesca Casella e Maurizio Vurro, ricercatori dell’Istituto di scienze delle produzioni alimentari (Ispa) del Cnr di Bari, in un articolo del novembre 2014 pubblicato su Silvae, rivista del Corpo forestale dello Stato.
Per capirci, l’ailanto è una sorta di Attila che conquista ogni angolo di terra, anche in città, e che ramifica quasi alla velocità della luce, seppellendo tutto quel che trova davanti. Ora, se accanto non c’è nulla o c’è asfalto e cemento, gli effetti nefasti sembrano meno evidenti. Sembrano. Perché in realtà un danno lo fa lo stesso: rende arido, e quindi inservibile, il terreno dove cresce. Danno limitato se poi quel terreno diventerà cemento o asfalto. Ma in zone estese come le colline delle praterie mediterranee dell’Alta Murgia, il problema è grosso perché l’ailanto è il killer di tutto, alberi e piante spontanee, dai funghi cardoncelli alle cicorie. E poi l’ailanto è una specie vegetale esotica capace di «veicolare patologie» ed essere «causa diretta di problemi sanitari, come asma, dermatiti e allergie».
C’è poco da scherzare, non fosse altro perché la «Commissione europea - ricordano ancora i due riceratori Cnr nell’articolo - ritiene che i costi, per l’Europa, imputabili alle specie aliene invasive ammontino ad almeno 12 miliardi di euro all’anno». Tutti d’accordo, allora, nel tagliare la testa all’ailanto-Attila.
Già. Ma come? Nel 2013 l’Unione europea finanzia il programma «Life +» preparato proprio dai ricercatori Vurro e Casella. Il progetto ha come partner non solo l’Ispa del Cnr di Bari (capofila), ma anche il Corpo forestale e l’Agenzia regionale per le attività irrigue e forestali (Arif) della Regione: un milione 757mila e 740 euro, di cui la metà a carico di Bruxelles, per sterminare l’Attila vegetale in quattro anni, entro i 2017. Negli ultimi mesi, gli interventi previsti dal «Life +» sono stati intensificati.
«È tutto certificato e autorizzato», assicura il presidente dell’Ente parco, Cesare Veronico. Aggiunge: «Tra il non contrastare l’ailanto, e l’accettare una sperimentazione proposta dal Cnr, fra l’altro dopo la nota della Regione che ha escluso il progetto di valutazione d’incidenza ritenendo non avesse incidenze sugli habitat e sulle specie animali e vegetali, e dopo la nota del del ministero dell’Ambiente con cui è stato concesso il nulla osta all’adozione di un provvedimento che consenta l’utiizzo di prodotti fitosanitari per l’eradicazione, ho scelto di contrastare».
Una ragione in più che ha convinto Veronico è la somministrazione degli erbicidi direttamente nel tronco delle piante indesiderate.
Ma per il fronte «bio», il progetto «Life +» è un cazzotto alla bocca dello stomaco. Antonio Camerino, Carlo Caiati, Lorenzo Gusman e Patrizia Masiello scrivono con altrettanta contezza scientifica: «L’erbicida glifosate è un probabile perturbatore endocrino ed è un probabile cangerogeno, secondo l’ Agenzia internazionale di ricerca sul cancro, dell’Organizzazione mondiale della sanità». Carlo Caiati rivela: «Un recente studio pubblicato su Journal Archives of Toxicology del 2012 ha dimostrato che la tossicità del glifosato sul Dna è fortemente sottostimata. Nella preparazione commerciale del prodotto, esiste una forte azione sinergica tossica tra glifosato e un additivo, surfactant polyoxyethyleneamine. Grazie a tale azione sinergica, la tossicità del glifosato sul Dna si raggiunge a concentrazioni 450 volte inferiori a quelle utilizzate nelle applicazioni agricole. Purtroppo i residui di tale veleno negli alimenti e nelle acque sono in continuo aumento, dati Ispra. Per tutte queste ragioni, l’eventuale proroga dell’attuale autorizzazione del prodotto nell’Unione Europea è proprio in questo periodo sub-iudice». Zac.
Antonio Camerino, fra l’altro, fa notare che sono state necessarie più lettere inviate al direttore Modesti prima di conoscere il nome dell’erbicida: «Come è possibile che un’informazione così importante non venga resa pubblica insieme alle altre e fornita con maggiore trasparenza?». E Patrizia Masiello sbatte sul tavolo quattro foto: «Vede qui? Nella parte vicina alle radici della pianta di alianto tagliata e trattata chimicamente, se ne sviluppa un altra biologicamente diversa, deformata. Quindi, oil glifosato oltre che dannoso e anche inutile».
Fabio Modesti, le assicurazioni le ha verbalizzate in una lettera dei primi di luglio: «Il danno causato dall’uso del diserbante nelle modalità e dosi indicate nel progetto è irrilevante».
I quattro ecologisti non cedono di un millimetro: «In uno studio recente, tracce consistenti di glifosato sono state ritrovate in tutte le 13 più famose marche di birra tedesca esaminate. La birra si contamina perché utilizza orzo prodotto negli Stati Uniti e trattato con il glifosato. La Monsanto si difende affermando che l’emivita media del glifosato è di 30 giorni sul suolo e che quindi è difficile che avvenga la contaminazione. Ma i fatti smentiscono questa affermazione. Se tracce di glifosato sono state trovate nella birra, ciò significa che il glifosato è stato in grado di permanere, nonostante tutto il tempo trascorso e la fermentazione. E questo significa che anche il Parco e i prodotti che da questo si ottengono risulteranno contaminati».
Cesare Veronico non si nasconde: «Verificheremo alla fine i risultati della sperimnetazione. Ma le scelte tecniche non sono del presidente».
Parco, guerra alla pianta killer

Accuse sulla tossicità del glifosato utilizzato. La replica: danni irrilevanti, tutto autorizzato
Giovedì 18 Agosto 2016, 12:30
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