«Le catene della destra» (editore Rizzoli, pp. 304, euro 18) è il nuovo libro di Claudio Cerasa. Il saggio-inchiesta del direttore del “Foglio” è da oggi in libreria. Un testo sulla destra italiana di cui il giornalista parla in questa intervista alla “Gazzetta”. A poche settimane dal voto il nuovo saggio di Claudio Cerasa, direttore de “Il Foglio”, propone una radiografia delle suggestioni populiste presenti nel fronte conservatore a un passo dalla conquista di Palazzo Chigi.
Cerasa, chi sono gli impostori sulla scena politica italiana?
«Sono le due destre: quella rappresentata da Matteo Salvini e quella di Giorgia Meloni che presentano agli elettori un imbroglio mascherato da difesa della libertà: in realtà sono intrappolati nella retorica del complottismo».
«La destra può vincere, ma può governare?». La domanda è ricorrente nelle cancellerie internazionali e sui media mainstream. È anche il punto di partenza del suo volume.
«La destra dopo le elezioni sarà a un bivio: o decide di liberarsi dei propri scheletri nell’armadio e cambiare, come ha fatto Alexis Tsipras in Grecia, o sceglie di assecondare il suo armamentario tra lepenismo e orbanismo, trasformando così l’Italia nel laboratorio del nazionalpopulismo contemporaneo. Questa seconda strada rappresenta un orizzonte di corto respiro, che troverebbe presto un muro chiamato realtà».
Le riflessioni sulla globalizzazione che arretra avanzano ora anche sulle pagine del Sole24Ore. Lei, invece, ne tesse l’elogio, con tesi sovrapponibili a quelle espresse da Franco Cassano, sociologo amato da Giuliano Ferrara, nel saggio «Senza il vento della storia» (Laterza). E’ la linea dell’ottimismo del mondo libero e globale, nonché una delle cifre dell’eredità di Draghi?
«Assolutamente sì, Draghi ha mostrato una combinazione efficace tra Stato e mercato, e una capacità di mettere in luce le virtù dell’Italia. All’opposto il populismo tende a diffidare della concorrenza e descrive la globalizzazione come un nemico: assomiglia alle vecchie elaborazioni della sinistra sovranista. Non a caso assistiamo ad una connessione tra vecchi no global e nuovi populisti di destra, Dalla lezione di Franco Cassano bisogna recuperare la capacità di costruire un percorso macroeconomico sull’ottimismo non irresponsabile».
Nel saggio non fa sconti a Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Della destra di governo ha già scritto in passato nel saggio «La presa di Roma» su Gianni Alemanno. Ora la leader è nell’Aspen, ha un dialogo quasi quotidiano con Mario Draghi, è pro Ucraina. Con una sintesi estrema: ha scelto il modello «più Marcello Pera e meno Marcello Veneziani»?
«La Meloni, più di Salvini, è consapevole delle coordinate necessarie della destra che fa un passo avanti nella stagione della “post impresentabilità”. È molto sensibile alla agenda dei doveri, ma su troppi temi resta ambigua».
Su quali?
«Su Ue, immigrazione, giustizia, globalizzazione, “cultura dello scalpo”. La destra attuale ha un profilo diverso rispetto ai tempi prima della guerra nell’Est Europa, ma ogni tanto rappresenta una parte più estremista. Non combatte il populismo, pur avendo capito che le catene vanno rotte».
Salvini ora usa toni reazionari per recuperare voti, ma non è più «no-Euro».
«È un’altra cosa rispetto a quello che ha fatto negli ultimi anni. Anche la Lega è altro. Le battaglie antisistema le ha trasferite su vaccini o antieuropeismo sull’immigrazione. Poi c’è il Carroccio dei governatori che è pro Ue e ora fa fatica a riconoscersi nella leadership del segretario. Questi presidenti di Regione hanno più sintonia con la Meloni che con Matteo».
La guerra in Ucraina rivoluziona schemi nazionali ed europei. Fdi è atlantista, la Lega pacifista. In altri scenari sarà richiesta maggiore elasticità diplomatica, come in Libia. In questo assortimento non c’è anche la tendenza tutta italiana ad «annacare» negli scenari internazionali?
«La questione è chiara: loro sono stati corretti a cambiare rotta. E a nascondere le proprie idee, come è stato per Salvini. I partiti che cambiano così repentinamente, senza spiegarne le ragioni, però possono ricambiare posizione in fretta: seguono l’algoritmo del consenso. Del resto il cambio di passo della Meloni sulla Russia è determinato dalla adesione ai conservatori europei, gruppo egemonizzato dai polacchi, fortemente anti-Mosca. Salvini e Meloni sono atlantisti, Giorgia di più, ma continuano a difendere la libertà a metà».
Addio giustizialismo per i sovranisti. Una volta la destra di Fini non ricandidava il deputato Alberto Simeone autore di una legge di civiltà «troppo garantista». Che succede adesso?
«La destra estremista ha compreso che il garantismo porta consenso. Si è avvicinata a persone garantiste come Carlo Nordio, difende i diritti quando si parla di diritto penale, ma sulle carceri resta per il “buttare la chiave”. E le carceri sono una termometro della civiltà. Permane la punta di un iceberg giustizialista che si è andato ad assopire con Trump e cova sotto la cenere: potrebbe rinascere e avere l’Italia come testa di ariete e laboratorio in caso di vittoria di Salvini e Meloni il 25 settembre».
Il dilemma tra «leadership» o «followship»: auspica un ritorno alla politica che guidi i processi contemporanei?
«La followship asseconda i pensieri di chi urla di più, mentre la bravura di un leader sta nell’educare e formare i cittadini verso una stagione di pragmatismo, come è avvenuto con Draghi… Si ascolta ma si decide per l’interesse nazionale, mentre il sovranismo al fondo è contro l’Italia».
Ultima domanda: la Puglia come Emiliano e il Lazio con Zingaretti sono le regioni dove si sperimenta il governo Pd-5S, tra No-Tap, No-Triv e il mantra utopista della decarbonizzazione. Questo asse è seppellito per sempre dalle politiche?
«Le ragioni di dem e grillini si potrebbero riannodare dopo le elezioni, per una campagna congressuale contro Enrico Letta, se perde nelle urne. I riformisti gli rinfacciano già il mancato accordo con Calenda, la sinistra attaccherà per la rottura con Conte…».