La vita appesa a un filo. Letteralmente. Rifletteteci: quindici persone erano lì, pronte al ritorno alla normalità, a una vita vissuta finalmente fuori dai muri di casa dopo l'allentamento delle misure anti contagio per la pandemia. Ma sull'uscio ad aspettarli hanno trovato la morte. Prima un sibilo, poi un boato pazzesco e un altro botto, meno forte. In pochi secondi quella che doveva essere la domenica della ripartenza, si è trasformata in una tragedia, che tutta l'Italia piange.
Quattordici morti sul colpo, tra cui un bimbo di due anni, mentre un altro di nove è morto all'ospedale infantile Regina Margherita di Torino, dove è ancora ricoverato in prognosi riservata l'unico superstite della strage, un piccolo di 5 anni. Fili di vita, casualmente intrecciatisi in un singolo istante e tranciati via, senza un perché.
C'è chi era in vacanza con la famiglia, chi voleva trascorrere una giornata diversa e chi, come Roberta e Angelo (le due vittime baresi) erano lassù per festeggiare i 40anni di lei. Sembra quasi di sentirle le risa dell'allegra comitiva mentre salgono pian piano sulla funivia. Sembra quasi di vedere gli occhi pieni di meraviglia di quei bimbi che osservavano il mondo dall'alto, le manine paffute che toccano il vetro e le voci ovattate dalla mascherina che, però, non riesce a celare i sorrisi per quella ritrovata felicità.
Chissà se Angelo aveva con sé una candelina da far spegnere a Roberta sul punto più alto della montagna. E chissà cosa provava lei, Roberta, in quella giornata di festa e di libertà. Lui guardia giurata di Alberobello, protettivo e cordiale. Lei triggianese, medico della Asl di Piacenza, dolce, preparata e gentile, adorata dai colleghi della Continuità Assistenziale piacentina.
Aveva un cuore grande Roberta, tanto che durante l'emergenza sanitaria somministrava i vaccini anti Covid, negli hub della provincia, raggiungendo i pazienti anche a domicilio. Ma davanti al fato non c'è bontà o bravura che tenga. Basta un cavo spezzato a capovolgere il mondo. Urla, panico e poi il silenzio. E noi osservatori inermi, fatichiamo ancora a comprendere come si possa dedicare la vita agli altri per poi morire per un tragico scherzo del destino.
E se fossero rimasti a casa? Se non avessero preso la funivia o se l'avessero presa 20 minuti più tardi, cosa sarebbe successo?
Tutto ciò si poteva evitare? È mai possibile che nel 2021 si possa ancora morire così? Domande che rimangono appese paradossalmente a un filo. Quello stesso sottile filo tessuto dalle Parche del mito e che regge tutto l'universo senza un vero perché. Allora chiamiamola fatalità o coincidenza: ma il trauma resta, risvegliando timori ancestrali tra la paura atavica di cadere nel vuoto e la spinta tutta umana di riuscire a toccare il cielo con un dito.
Oppure chiamiamolo «memento», il monito che caratterizza tutte le tragedie e che serve ad accendere i riflettori sulla caducità della nostra esistenza.
Che si viaggi in autostrada, che si voli giù da un ponte che ti crolla sotto i piedi o si muoia durante un deragliamento di un treno, poco cambia. La verità ineluttabile è che nessuno di noi è in grado di aggiungere un solo secondo al tempo che ci è dato trascorrere su questa Terra, ma oltre a bombardarci di se e di ma, forse, qualcosa noi comuni mortali la possiamo fare davvero.
Accertare le responsabilità, senza puntare il dito contro nessuno ma pretendendo verità e, nel caso, giustizia. Giustizia per queste quattordici vittime, per le loro famiglie, per quei sogni che si sono sfracellati sulle pendici di quel monte e per il nostro Paese, tanto bello quanto deturpato. Questa strage aggiunge l'ennesima ferita aperta sul cuore e sul volto della bella Italia.