FOGGIA - Processo abbreviato per i fratelli foggiani Giuseppe e Roberto Bruno di 24 e 21 anni, detenuti dal 27 ottobre quando furono arrestati dai carabinieri del nucleo investigativo su ordinanze del giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bari.
Rispondono di estorsione aggravata dalla mafiosità al titolare di un bar, costretto “a somministrare loro alimenti e bevande gratuitamente con l’obiettivo di imporre la propria presenza mafiosa, desumibile dall’affermazione: qua comandiamo noi”, attribuita al più giovane dei due imputati: entrambi si dicono innocenti.
Il pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Bari Bruna Manganelli aveva chiesto e ottenuto dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bari il processo immediato che serve a saltare l’udienza preliminare, fissato per il 16 marzo in Tribunale a Foggia.
L’avvocato difensore Francesco Santangelo a quel punto ha optato per il giudizio abbreviato: gli atti sono quindi stati trasmessi al giudice per le udienze preliminari presso il Tribunale di Bari che fisserà a breve l’udienza per requisitoria, arringa e sentenza.
Gli imputati sono figli di Gianfranco Bruno, 44 anni, detto il “primitivo”, di nuovo detenuto da febbraio 2019, in attesa di giudizio per droga nel processo Araneo e condannato a 14 anni e 10 mesi (c’è ricorso in Cassazione) quale presunto mandante del tentato omicidio di tre foggiani, sfuggiti a tre tentativi di agguato a gennaio 2019, per vendicare la morte del cognato Rodolfo Bruno ucciso il 15 novembre 2018.
E’ la Direzione distrettuale antimafia di Bari a porre l’accento sulla parentela tra Gianfranco Bruno (definito negli atti processuali “personaggio di primo piano nella criminalità foggiana, parente di Rodolfo Bruno storico cassiere della Società legato al can Moretti/Pellegrino/Lanza, ucciso in un agguato mafioso”) e i due presunti estorsori nel contestare a questi ultimi l’aggravante della mafiosità.
“La condotta delittuosa” scrive il pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia “evocò nella vittima la verosimile esistenza di sodalizi criminali capaci di realizzare forme di assoggettamento e controllo del territorio e delle attività di impresa”.
L’episodio contestato a Giuseppe e Roberto Bruno risale al 20 gennaio scorso quando insieme ad altri coetanei si presentarono nel bar, ordinando un cocktail senza pagare, dicendo: “qua comandiamo noi”. Si tratta di estorsione – sostiene la Dda – perché il titolare del locale fu minacciato, facendogli intendere “viste le qualità personali dei richiedenti, le modalità e il contesto ambientale in cui è avvenuta l’illecita richiesta che in caso di mancato soddisfacimento avrebbe subito ritorsioni. E’ una minaccia subdola per lo stato di succubanza psicologica della vittima, determinato dalla paura di subire violenze e/o ritorsioni”. Che il barista fosse terrorizzato – aggiunge la Dda – lo dimostra il suo sfogo con un ‘altra vittima del racket intercettata dai carabinieri (vedi articolo a fianco ndr); e la decisione di chiudere il locale per qualche giorno.