Ormai è deciso: il 1° agosto 2025, mezzogiorno ora locale Usa, i dazi indifferenziati al 30% non scatteranno più su tutte le importazioni dall’Unione Europea. La visita del «bacio del culo» di Ursula Von der Leyen a Trump in Scozia sembra aver dato i frutti sperati. Il 30% minacciato tatticamente si è ridotto ad un 15% più «umano». Corroborato da impegni a comprare armi statunitensi e a fare investimenti europei negli Usa. E così finalmente calerà la nebbia che avvolge tutte le previsioni più disparate di impatto sui circa 75 miliardi di interscambio Italia-Usa.
Di numeri tutti ne hanno fatti in questi quattro mesi, tanti; alcuni giustamente allarmati, altri per portar acqua al mulino delle categorie di aziende rappresentate. Perché se pagano tutti e non solo alcuni, è meglio. Si sa, ognuno «tiene famiglia». Eppure nel primo quadrimestre del 2025 l’export italiano verso gli Usa è anche aumentato; forse per l’effetto annuncio o per fare un po’ di sana speculazione. Fatto sta che il giorno delle verità per circa 34mila aziende esportatrici italiane sembra arrivato. Dopo tanto clamore dal Liberation Day del 2 aprile è arrivato il famigerato D-Day. E allora si vedrà se i numeri dell’export caleranno e che effetti avranno sui bilanci delle imprese e dell’Italia. Vedremo se avere circa il 92% di esportazioni rappresentate da merce di fascia alta e media fatte per il 50% da medie e grandi imprese e abbastanza differenziate per settori ci renderà meno amaro buttare la pillola giù.
La sensazione e il timore è che se le imprese riusciranno come sempre a cavarsela, grazie alla proverbiale flessibilità italiana, un po’ meno fortunati potranno essere nell’immediato i loro dipendenti, specie quelli delle piccole imprese che fanno più guerra di prezzo che di qualità. Proprio quelle che avevano iniziato, dopo tanti tentennamenti, ad esportare al grido di «export è bello!».
E la nostra Puglia? Che impatto potranno avere i dazi USA al 15% sulle imprese di casa e sulle loro esportazioni totali ormai da qualche anno ferme a circa 10 miliardi con il mercato americano che pesa circa 900 milioni, pari al 9%? Un aiuto ci potrà certamente venire dalla virtù di non esserci legati troppo, come territorio, agli Usa. Questa bassa dipendenza viene espressa in termini di Indice di Diversificazione che rappresenta quanto sono concentrate le esportazioni verso un Paese. Tanto più alto è questo indice e tanti meno sono i settori produttivi interessati al fenomeno. In pratica più alto è l’indice, più alto è il rischio.
La Puglia ha un indice pari a 50, uno dei migliori fra tutte le regioni italiane; la Lombardia che esporta oltre il 19% dei 75 miliardi italiani ha un indice di 43 e il Piemonte, con i suoi circa 5,5 miliardi di export, sta peggio con un indice di 55.
Quindi sostanzialmente possiamo dire che la Puglia rischierà di meno esportando verso gli Usa solo 900 milioni dei propri 10 miliardi complessivi e questo export lo distribuisce abbastanza bene fra diversi settori. Della serie «mal comune, mezzo gaudio». Certamente molto peggio stanno altre regioni meridionali con indici particolarmente elevati: 95 la Sardegna e 85 la Sicilia, i cui export verso gli Usa sono troppo concentrati nel settore della raffinazione dei prodotti petroliferi. Ovviamente anche in Puglia i settori più a rischio saranno quelli che più esportano. Nell’ordine macchinari e apparecchi (350 ml), autoveicoli (182 ml), agroalimentare e vini (152 ml) e manifatturieri (113 ml) che insieme rappresentano circa il 90% di tutto l’export pugliese verso gli Stati Uniti.
E allora come se ne esce da questo impasse? Ovviamente sperando che il risultato conseguito da Ursula permetta almeno di limitare i danni; del resto anche i mercati in questi mesi non hanno mai creduto ad un epilogo tragico visto che sono ai massimi. Arriva il giorno della verità! Vedremo.
Tra l’altro la strategia del terrore di Donald gli aveva già portato alcuni frutti sperati: partecipazione alla spesa militare per la difesa, acquisto di energia, abolizione della web digital tax per le Big Tech. Non è poco. Tirare troppo la corda avrebbe potuto non fare bene anche agli Usa. L’ingordigia avrebbe potuto costare cara in termini di aumento dell’inflazione, aumento della spesa pubblica, del debito ormai a 30mila miliardi di dollari, del rapporto debito/PIL ormai prossimo al 100%. Anche le agenzie di rating da un po’ stanno suonando qualche allarme sulla sostenibilità del debito pubblico Usa e sulla funzione di bene rifugio del dollaro; parlano addirittura di ristrutturazione del debito. E poi anche gli Usa hanno evitato gli effetti dei dazi ritorsivi per oltre 90 miliardi, «l’arma letale 2», che la Ue aveva minacciato di usare dal 7 agosto per difendersi dal 30% minacciato.
Ma a parte la sana negoziazione posta in essere con un partner che per l’Europa resta fondamentale, la strada l’aveva indicata l’anno scorso profeticamente Draghi nel suo rapporto sulla competitività. Alcuni interventi sono di sistema da ripensare: riduzione dipendenza e costo dell’energia, riduzione dei vincoli alla libera circolazione dei beni nel grande e ricco mercato europeo che vanta circa 450 milioni di consumatori, accordi con mercati extra-europei come Mercosur, Emirati Arabi Uniti, India, Cina, Africa, Indonesia, in cui l’indice di penetrazione è ai minimi termini. E ancora creazione di un vero mercato unico europeo dei capitali per evitare di esportare i nostri risparmi e dedicarli a favore dello sviluppo locale, riduzione dell’iper-regolamentazione, alla burocrazia asfissiante. Non si può essere più realisti del re, masochisti, senza per questo abiurare al percorso virtuoso già intrapreso. Basta semplificarlo e farlo apparire meno vessatorio, specie alla libertà di iniziativa economica.
Le aziende dalla loro dovranno comunque aumentare la competitività e la produttività tramite l’innovazione aprendo nuovi mercati e facendo guerra di qualità e non di prezzo. Bisogna passare dalle imprese commodity alle imprese happy; dobbiamo vendere non semplicemente prodotti e servizi, sostituibili per un solo centesimo di sconto, ma sensazioni uniche e insostituibili. Il brand Italia e il brand Puglia deve essere il nostro mantra. Chi di tutti i miliardi di abitanti del pianeta non vorrebbe venire in Italia e in Puglia? E in questo momento di transizione, di cambiamento, di evoluzione, di crescita non sarebbe male se anche la Bce facesse la sua parte cercando di sostenere finanziariamente le imprese, specie quelle più piccole che potrebbero avere qualche problema in più nel cambiamento. Abbiamo superato il Covid, supereremo anche il D-Day. E allora ad «America First» ora rispondiamo con «Europa First».