Il porto di Taranto somiglia sempre più a quello delle nebbie di Amburgo. Sperando che si diradino in vista del generale Agosto. Governo ed enti locali si sono lasciati con l’intesa di rivedersi il 31 luglio, affinché il sindaco, Piero Bitetti, possa coinvolgere il Consiglio comunale – convocato per il 28 luglio – che non può essere ridotto a un convitato di pietra. Del resto, la comunità tarantina non può restare all’oscuro dello stato dell’arte. Le trattative sull’Accordo di programma tra il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, guidato da Adolfo Urso, le istituzioni locali – Regione Puglia, Comune di Taranto e Comune di Statte – e le organizzazioni sindacali metalmeccaniche si sono arenate. Nessun risultato. Nessun accordo. Alla prossima data del 31 luglio si giocherà la partita finale, salvo ulteriori approfondimenti.
Il presidente Michele Emiliano ha tentato fino all’ultimo di ricomporre la frattura, senza cedere di un millimetro sugli impegni presi con la comunità tarantina. Ma di fronte a proposte governative ritenute inaccettabili, anche lui ha dovuto arrendersi. Ha ammesso che le condizioni politiche e sociali per una ratifica locale dell’accordo “non sono mature”. Del resto, la città – reduce da elezioni comunali segnate da una netta spinta ambientalista e anti-industriale – non poteva che reagire con freddezza. Il sindaco Piero Bitetti ha vinto proprio sull’onda di un cambiamento economico - industriale: dal siderurgico a un modello alternativo, non ancora compiutamente definito, ma evocato come promessa. Più scritto nel libro dei sogni che ancorato alla realtà di una città cresciuta – e ferita – da decenni di cultura industriale, mai davvero accettata da una parte consistente dei tarantini, storicamente legati alla pesca, alla mitilicoltura, all’Arsenale e alla Marina Militare. Comprensibilmente, Bitetti ha chiesto una pausa di riflessione con le forze locali, consapevole che il Consiglio comunale e le associazioni ambientaliste – determinanti per la sua elezione – erano già sul piede di guerra. Assemblee, mobilitazioni, comunicati: il messaggio era chiaro. Se avesse firmato, sarebbe diventato il capro espiatorio. Ecce homo. Così, il Comune di Taranto si è tirato fuori dalla trattativa, prendendo tempo in vista della riunione del 28, lasciando il ministro Urso tra “color che son sospesi”. Non si tratta di cercare colpevoli, ma Emiliano ha colto nel segno quando ha affermato che «si continua a delegare al Comune il proprio destino industriale, ma poi nessuno fa sentire al sindaco la propria vicinanza. E intanto, lui, appena eletto, dovrebbe andare a spiegare ai suoi cittadini che dovranno sopportare ancora per anni emissioni inquinanti non risolte». Il ministro Urso, per fare meglio, ha tirato in ballo Taranto. Ha scaricato su un’amministrazione locale appena insediata la responsabilità di una scelta strategica nazionale. È sembrata una manovra per lavarsi le mani, benché non fosse nelle intenzioni. Ma così è stata percepita da Regione, Taranto e Statte: come un tentativo di scaricabarile. Ora, sui carboni ardenti restano i sindacati. Il leader della Uilm, Rocco Palombella – tarantino doc – lo aveva previsto, conoscendo bene la storia, gli umori e le cicatrici della città. E infatti, insieme agli altri rappresentanti sindacali, ha mantenuto un atteggiamento responsabile nel confronto con Urso e con gli enti locali. Al centro, una sola priorità: tutelare i livelli occupazionali, accompagnando la transizione dal ciclo integrale all’acciaio green. L’obiettivo del governo è chiaro: produrre in Italia otto milioni di tonnellate di acciaio green all’anno, di cui sei proprio a Taranto. Ma prima servono l’accordo interistituzionale e la nuova Autorizzazione Integrata Ambientale e Sanitaria (AIA). Il piano prevede tre forni elettrici a Taranto, uno a Genova e quattro impianti DIR per la produzione di preridotto – materia prima necessaria per i nuovi impianti – da realizzare nel capoluogo ionico, qualora accetti una nave rigassificatrice. Ma Bitetti si è detto contrario per ragioni ambientali, navali e industriali (l’hub eolico è in fase di sviluppo). In alternativa, si pensa a un altro sito nel Mezzogiorno: Gioia Tauro è il nome più accreditato. Oppure – proposta B – al posto della nave rigassificatrice, si installerebbero tre forni elettrici, puntando sul gas della Snam come potenziale fornitore. Ma, come spesso accade, “del doman non v’è certezza”. Tra le ipotesi è spuntata anche la proposta C: produrre 4 milioni di tonnellate con un solo forno elettrico e un impianto DRI. Ma su questo scenario i sindacati sono contrari: penalizzerebbe l’occupazione del sito di Taranto. Alla ridda delle ipotesi si dovrà dare risposta con misure proporzionate alla complessità del “caso Taranto” e alle esigenze del sistema industriale italiano. Servirà comunque una nuova gara. Il bando attuale – giunto alla fase di trattativa esclusiva con Baku Steel – va aggiornato: i tempi per la decarbonizzazione si sono accorciati da dodici a otto anni. Urso ha dichiarato che l’adeguamento del bando potrebbe avvenire “già a fine luglio” e si dice fiducioso che, con il nuovo scenario, si affaccino “ulteriori partner internazionali”. Ma il suo ottimismo si scontra con le preoccupazioni ambientali e sanitarie degli enti locali e con la concretezza dei sindacati, che ribadiscono con fermezza: nessuna firma senza garanzie certe sul destino industriale dello stabilimento e sull’occupazione. Prima le tutele, poi gli impegni. Nel frattempo, giovedì si terrà al Ministero dell’Ambiente la conferenza dei servizi per l’approvazione della nuova AIA. Una decisione attesa anche dal Tribunale di Milano, che – senza questa autorizzazione – potrebbe decretare la fine dell’attività produttiva. Contrari, senza riserve, al rilascio dell’AIA restano le associazioni ambientaliste e numerose realtà del mondo sanitario. In fondo, la frattura tra città e fabbrica resta aperta. Dal luglio 2012, lo stabilimento è passato da una gestione all’altra – commissari straordinari, ArcelorMittal, nuova gestione pubblica – senza mai trovare una via stabile. È stata una lenta agonia. L’agonia della siderurgia pubblica italiana. Urso ci sta mettendo tutto sé stesso per evitare di dover portare i libri in tribunale. Combatte da solo. Ma se salta l’intesa sull’Accordo di programma, sarà l’intero governo Meloni a dover affrontare il “caso Taranto”. Il cuore della questione industriale italiana. Le casse di Acciaierie d’Italia sono vuote. Gli ultimi 200 milioni stanziati sono solo una goccia nel deserto. Si prospettano tempi lunghi e complessi, sotto molti aspetti. Il sopravvento della comunità ionica sulla trattativa si placherà? Questo è il vero interrogativo. Lo sforzo di Urso è ammirevole: ha in mano una patata bollente, quella dell’ex Ilva. Ma a questo punto dovrà entrare in scena la presidente Meloni, con nuove proposte per il rilancio di Taranto. Non sarà un pranzo di gala. Il punto ora è uno, e riguarda tutti: governo, sindacati, Comuni di Taranto e Statte, Regione Puglia. Che fare?