È incisiva la lezione dialogica di papa Leone XIV, nella sua prima udienza del mercoledì, dinanzi alle Chiese d’Oriente: «Perché questa pace si diffonda, io impiegherò ogni sforzo. La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi, perché ai popoli sia restituita una speranza e sia ridata la dignità che meritano, la dignità della pace». Si leva dall’Aula un grande applauso e in mezzo a chi grida: «Viva il Papa», Prevost aggiunge con voce decisa: «I popoli vogliono la pace e io, col cuore in mano, dico ai responsabili dei popoli: incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo! La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere, perché non risolvono i problemi ma li aumentano; perché passerà alla storia chi seminerà pace, non chi mieterà vittime; perché gli altri non sono anzitutto nemici, ma esseri umani: non cattivi da odiare, ma persone con cui parlare. Rifuggiamo le visioni manichee, tipiche delle narrazioni violente, che dividono il mondo in buoni e cattivi. La Chiesa non si stancherà di ripetere: tacciano le armi».
Dinanzi a quale mondo arriva questo accorato appello? È possibile, nel nostro orizzonte contemporaneo, chiedere ai nemici, con misericordiosa fermezza, di guardarsi negli occhi? Nella sua prima Messa, celebrata nella Sistina, papa Leone aveva giustamente avvertito che, in alcuni contesti sociali, la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti. Si preferisce, evidentemente, esser ritenuti potenti rispetto all’esser misericordiosi.
Eppure oggi, qui da Roma, si pronuncia un grande insegnamento: la Storia ricorda i costruttori di pace e, nel tempo, condanna i criminali di guerra. E allora non possiamo non pensare che siamo davanti a ore delicate: Putin incontrerà il leader ucraino alla presenza di Erdogan? Non si sa, ma siamo propensi a credere che questo non accadrà. Nello stesso tempo, mentre Trump è alle prese con i suoi affari a Riad (dove erano presenti anche Elon Musk e John Elkann), dagli Usa non arriva nessuna conferma sui colloqui di Istanbul. E invece quale notizia trapela da Washington Post? «Il tycoon ha annullato 450 milioni di dollari in finanziamenti federali all’Università di Harvard». Ecco il nostro piccolo mondo attuale, che si svilisce e ridicolizza nelle sue decisioni politiche, mentre il Pontefice di Roma allarga gli orizzonti, sulla via del suo predecessore, verso un mondo che sappia alzare lo sguardo e tornare alla dignità umana.
Non vogliamo (e non possiamo) essere manichei, non ci sono buoni e cattivi, perché spesso le ragioni sono intrecciate; eppure notiamo, con sempre maggiore frequenza, che capi di Stato e popoli sono indifferenti al dolore. In alcun frangenti, viene in mente, paradossalmente, che dovremmo dichiarare, dinanzi ai posteri, di aver fallito il nostro essere uomini e donne del Duemila, se abbiamo persino dimenticato la pietà verso quelle tremende immagini di bambini affamati a Gaza. Sì, quel territorio è sull’orlo della carestia: come possono tutti i potenti della Terra non indignarsi per questo? Come possiamo noi, parte della società civile, (anche tristemente colpevole di ignavia), non scendere in piazza, ogni giorno, per chiedere attenzione per Gaza, per il Sud Sudan, per il Congo, per lo Yemen, mentre una gran parte della politica, cinicamente, attua soltanto «bullismo, egemonismo e autoisolmento»?
Queste parole sono tratte dal vertice, in corso, fra Cina e Celac, l’organizzazione che riunisce i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi dinanzi a leader Xi Jinping. Giustissime le parole di Xi, in questo consesso, ma oltre ai suoi interessi economici, la Cina è disposta a promuovere una visione alternativa della politica estera, che sia il contraltare di Trump? Abbiamo forti dubbi su questo. Non ci sono buoni e cattivi, ma c’è, dinanzi a noi, una società che non è all’altezza della contemporaneità e si rifugia in soluzioni antiche e ovvie, come la guerra. Il dialogo è una «faccenda» per persone e popoli maturi. Siamo maturi nel dialogo o siamo soltanto parte di una tecnocrazia asettica?