La vittoria del Festival di Sanremo premia la novità anche se tutti acclamavano una Giorgia icona di vittoria, affermando «hai vinto», mentre ritirava il premio Tim. Sembra come per il successo del primo della classe: è la normalità che si dà per scontato! Tutti cercano la storia speciale, la novità, il ragazzo che dal 5 arriva al 10… magari fresco, giovane e sconosciuto, il colpo di scena… Così apparirebbe la vittoria di Olly. E a seguire lo spazio offerto a chi offre qualcosa di «diverso», coniugando tradizione e innovazione. Autenticità e conformismo.
E poi il testo di Marcella Bella finita in ultima posizione e la voce di Giorgia ineguagliabile, la commozione di un Fedez, che forse inizia a riconoscere quanto ha agito nella relazione coniugale, fino alla semplicità disarmante di Lucio e la tenuta di scena di Serena Brancale, da star holliwoodiana.
Carlo Conti dalla terza serata si è sciolto grazie anche a Geppi Cucciari, che tra il sacro e profano con la sua sagacia autentica ha saputo smuovere la situazione e accedere alla parte umana del presentatore, il quale si è lanciato oltre il proprio comfort zone, mostrandosi disponibile al gioco delle parti ancora un po’ interpretato. Chiude il cerchio Mahmood con la presenza di un non verbale eloquente anche se contenuto, ma pronto ad esplodere nel suo stile tra rap e underground, unendo tutti in un linguaggio transgenerazionale. È quella capacità di stare nei propri panni, mantenendo la professionalità di condurre il pubblico, senza uno switch netto, poiché integra il ruolo nella personalità.
Un public speaking che abbiamo visto perfettamente offerto dalla Cucciari, che ha anche schernito a momenti Carlo Conti, nel siparietto sugli auguri agli uomini, definendoli «creature stupende, dolcemente complicate che rendono il mondo migliore e gentile» e ringraziando Conti perché è un grande conduttore e artista ma «sopra ogni cosa un padre», parafrasando le sue stesse parole rivolte a Bianca Balti nella prima serata, aggettivandola «mamma e guerriera», dimenticando di guardare alla donna e alla personalità appunto della stessa, che va oltre i ruoli e il genere e soprattutto oltre la malattia che non definisce mai la persona. «Uomini - prosegue la Cucciari, che quando dicono di no - è perché non ce la fanno proprio».
Uno smacco, dunque, a quella intelligenza linguistica e lessicale poco praticata, a cui chi parla in pubblico deve essere formato, in tempi come questi in cui obiettivi come inclusione e diversità non lasciano spazio a pensieri e parole stereotipate, se si vuole essere protagonisti del cambiamento e di un’evoluzione culturale che azzeri la violenza a favore della valorizzazione delle diversità, in modo autentico ed empatico.
Ancora troppa «morte d’amore» (Achille Lauro) nelle canzoni e poca attenzione all’educazione affettiva che passa da testi come quello di Marcella Bella che esalta l’indipendenza femminile, troppo poco popolare.
Come spesso accade, il Festival con una visibilità di questa portata, diventa lo specchio di una transizione culturale, nel passaggio generazionale ma anche luogo dove generi, culture, convinzioni si incontrano e fanno fatica a legittimarsi a vicenda. La disputa avviene in vitro, nel piccolo mondo che l’Ariston offre, dando luce a due polarizzazioni: conformità e diversità.
Quale comune denominatore troveranno per stare davvero bene insieme, portati dal leitmotiv della musica?
Intanto, meglio non farsi distrarre troppo e, su ironico monito di Roberto Benigni, continuare a praticare un risveglio collettivo, tenendo ben d’occhio gli scenari internazionali del momento, esercitando il potere di analisi e di scelta, almeno fin quando il popolo è sovrano e il sistema di governo rimane democratico.