I fatti di cronaca eclatanti non sono emblematici della condizione umana di un territorio. Sono un grido che assorda e rapido si spegne. La febbre di un luogo è indicata da fatti minori, che tendono a essere dimenticati. Perché coinvolgono poco, non sono abbastanza beceri, morbosi, sanguinari. Si desiderasse un termometro sociale, però, in quelli bisogna cercare. Ne sono prova dei marginali fatti pugliesi di «nera» d’estate.
Nelle settimane scorse, sotto un cumulo di avanzi della vita degli altri, è stata ritrovato il corpo di una donna ricercata per giorni. Era quello di una insegnante in pensione, proprietaria di numerosi appartamenti nella città di Taranto. Viveva da sola, ossessionata da un disagio psichico che la portava a raccattare ciò che trovava per strada, per poi accumularlo nel suo appartamento. Una donna che, pur non angosciata da ristrettezze economiche, si era allontanata dalla società.
A Foggia, una donna di 63 anni è morta per cause naturali nella sua abitazione, in cui viveva da sola. Il decesso è stato scoperto dopo dieci giorni.
Da Bisceglie e poi da Bari le strazianti notizii di omicidi/suicidi di due coppie di ultraottantenni.
A Taranto, sventato all’ultimo momento il tentativo dell’ennesimo suicidio.
Un elenco tragico di individui prostrati, sconfortati, appartenenti a un nuovo modello di emarginati, numerosi e poco percepibili. Siamo abituati ai barboni, agli sbandati di vicinato. La loro visibilità li rende rassicuranti. Dar loro un aiuto è facile, spontaneo. Possibile. Ma tanta della nuova marginalità è chiusa in casa, oppure nascosta, non dichiarata: è composta da sagome sconfitte che si confondono con i disegni dei copridivani, da braccia vuote appendici di telecomandi, da giornate scandite solo dagli orari in cui assumere medicinali obnubilanti. Individui restati soli a causa del basso livello di affettività, data e ricevuta. O per cortocircuiti relazionali. O per tormento. O chissà per quale altro maledetto motivo. Gente che non si è saputa adattare a una vita fuori dalla dimensione lavorativa, a cui la famiglia non ha saputo dare sollievo; che al disagio procurato da una quotidianità inattesa e frustrante, ha saputo opporre solo il progressivo ritirarsi dall’esistere.
Tutto questo ha creato una sacca di disperazione sociale ctonia e insospettabile. Ma presente e sempre più in emergenza, affetta da un male oscuro che Tomaso Garzoni, un intellettuale estroso del ‘500, seppe descrivere magistralmente: «… l’aver pochissimo animo e ardimento; l’esser quelli ripieni di tristezza e di paura, né saper di ciò render la causa; il pianger soverchio che fanno; il desiderio della solitudine e l’odio del consorzio umano …». Chi, come me, si guarda intorno per poi raccontare e descrivere ciò che vede, non sa, non può e non deve proporre soluzioni.
Altre energie sono deputate a tale compito. Quelle che dovrebbero aprire un «Osservatorio sulla disperazione quotidiana» e intervenire prima che l’inadeguatezza del vivere si trasformi in disgrazia, in pantomima di guitti o in tragedia. Perché cadere in tale situazione è più facile di quanto si creda: abbiamo costruito una società che rifiuta i deboli. Li irride. Li esclude. Li annulla. Chiede, invece, di diventare sempre più forti, produttivi, vincenti. Concentrati sulla propria convenienza, seppur sporcata d’ipocrisia. Chi non è capace, è fuori. Sono numerosi, poi, i tentativi di integrazione istituzionale dedicati agli esclusi, ai disadattati, ai diversi. Tentativi dal retrogusto acido: l’integrazione proposta è spesso un percorso forzato di omologazione. Una «Cura Ludovico» morbida, senza la Nona sinfonia di Beethoven e senza dilatatori oculari; insomma: non proprio come quella inflitta a Alex De Large/Malcom McDowell in Arancia Meccanica di Stanley Kubrick. Ma che persegue lo stesso risultato.
C’è crudeltà in questo agire mellifluo. Quella dolce spietatezza a cui la maestra di Taranto ha cercato di sfuggire, raccogliendo gli scarti di chi l’aveva messa da parte. Servirebbe cautela e umana pietà, prima dei tentativi pelosi di integrazione. Perché le scorie del nostro mondo sono pronte a seppellirci tutti. E incombono, cariche di minaccia.