Al processo Impagnatiello ha sorpreso molto la deposizione della testimone che ha avuto con lui una relazione in contemporanea con quella che aveva con Giulia, entrambe incinta, lei fortunatamente salva grazie alla decisione di abortire, l’altra, purtroppo, uccisa insieme al suo piccolo.
Ex collega di lavoro.
È facile che nell’ambito lavorativo sorgano storie perché, ci dice la psicologia, è il posto dove ognuno dà il meglio di sé e, quindi, è maggiormente attraente, non foss’altro perché non è in tuta e ciabatte castranti, come in casa.
Inizialmente ha chiesto di essere nascosta da un paravento, ma poi ci ha ripensato per poterlo guardare in faccia.
La drammatica testimonianza che ha reso, interrotta a tratti soltanto dalla comprensibile commozione che le davano i ricordi nella ricostruzione dei fatti, non è stata intaccata neanche un po’ da quel sentimento di solidarietà che, da sempre, ha nutrito nei confronti di Giulia.
Ha, infatti, raccontato come voleva aiutarla anche quando quell’uomo era in condivisione, quando nell’universo femminile è facile che scatti la competizione e la voglia di accaparrarsi la materia del contendere a scapito dell’altra.
Tanto più in una situazione di innegabile fragilità che una gravidanza regala.
«Volevo aiutare Giulia, farle capire, darle qualcosa di concreto e farle capire cosa stava succedendo».
Lei, la rivale che a cena fuori, davanti ad un bicchiere di vino, si è sentita dire che era l’unica donna con cui lui voleva stare, la donna della sua vita. Che ha ricevuto una promessa di fidanzamento ufficiale di lì a qualche mese, condito della negazione assoluta della paternità di quel bimbo che, invece aspettava la donna ufficiale. Nonostante fosse ferita, sentiva che Giulia era la più debole e necessitasse della sua protezione nel sapere chi aveva davanti prima di partorire.
Voleva aprile gli occhi! E non per un tornaconto personale di un’infida rivale che cerca di accaparrarsi l’oggetto del desiderio.
La telefonata, la proposta di incontrarsi di persona, l’appuntamento ottenuto con Giulia, la richiesta di estendere la partecipazione anche a lui che, però, ha declinato di fatto uscendo in anticipo dal lavoro.
L’incontro, finalmente, dove le due donne anziché accapigliarsi si sono confermate i dubbi che avevano sulle loro storie condivise.
La freddezza percepita dei messaggi successivi all’incontro, scritti da lui perché Giulia era già morta. Il contatto avuto con la sorella di lei, non potendo più parlarle. Il consiglio di salvarsi insieme al suo bambino dalla violenza di quell’uomo che avrebbe dovuto amarli e non accaparrarsi un’altra preda, anch’essa incinta, ma che ha pensato bene di perderlo per tutte le insicurezze che aveva avvertito insieme al bisogno di salvare l’altra ad ogni costo.
Ecco, in un momento in cui è appena trascorso un giorno come l’8 marzo che ancora viene definita la “Festa della Donna”, ma impropriamente. Perché per l’ennesima volta non ci siamo. L’8 marzo è la Giornata internazionale (dei diritti) delle donne. E non è la stessa cosa. È una ricorrenza, una triste ricorrenza che dovrebbe farci riflettere sulla nostra condizione fatta di talmente tanti eventi che elencarli tutti non basterebbero fiumi d’inchiostro. Eppure, da giorni, le mail di tutte noi, ma anche le pubblicità in strada, sono piene di brand che offrono sconti per questo giorno di “festa”, invitandoci a fare qualcosa per noi. Le Istituzioni non sono da meno: convegni, mostre, eventi, ingressi gratuiti a musei. Tutto ciò che per i restanti giorni dell’anno si perde nei mille rivoli delle disparità di genere.
Nulla ha a che vedere con i festeggiamenti della ricorrenza, ma un suo significato altissimo nelle dinamiche femminili arriva da questa deposizione.
Per chi di noi approfondisce le tematiche femminili da un punto di vista sostanziale, lontano anni luce dai festeggiamenti dell’8 marzo a suon di pizze “da sole, senza uomini”, piuttosto che di teatrini simili, dall’estetista o a fare un aperitivo, quanto è successo in quell’aula di giustizia squarcia un muro che speriamo conduca ad una nostra catarsi da tutti quei lacci e lacciuoli che ancora ci caratterizzano, frenandoci in quell’ascesa, sociale, professionale, familiare che meritiamo indubbiamente, ma per un’atavica mancanza di solidarietà femminile non riusciamo a mettere in atto serenamente.
È arrivato il momento di imparare ad essere quella donna che aggiusta la corona di un’altra donna, senza dire al mondo che era storta.