Oggi si celebra il «Giorno del ricordo», dedicato alle memoria delle vittime delle Foibe. Duro l’ammonimento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Un muro di silenzio e di oblio si formò intorno alle terribili sofferenze di migliaia di persone. La ferocia che si scatenò contro gli italiani non può essere derubricata sotto la voce di atti, comunque ignobili, di vendetta o giustizia sommaria contro i fascisti occupanti». Previste manifestazioni in tutta Italia.
Le tragedie sono ricordanze che i popoli non possono dimenticare. Tutte le tragedie hanno sangue sparso che racconta. Mio padre un giorno mi ha raccontato ciò che ha visto accadere in Istria tanto tempo fa. Ed è cosi che trascrivo.
«Vennero condotti oltre il filo delle rocce. Erano in tanti. Anche ragazzini. Avevano i polsi legati e alcuni con un sottile cerchio di ferro. Non era ancora l'alba con i bagliori riflessi della luce. Eppure le ombre erano numerose. Le ombre di donne, uomini e bambini. Le donne e gli uomini erano giovani e meno giovani. I ragazzini avevano l’età dei ragazzini di quel tempo. Poi altre ombre. Sagome di persone con scarpe pesanti o stivali e fucili e mitra tra le mani. Molti portavamo un basco e erano avvolti, lungo il collo, da fazzoletti corti e lunghi. Le ombre si allungavano e oltrepassavano il filo delle rocce, rocce carsiche. Si dirigevano verso strade irte piene di buche e scoscese».
Questo mi raccontò mio padre, in una sera d’inverno, mentre il fuoco scoppiettante rendeva rossi i visi e le onde del mare erano di là della pianura, in lontananza, e il rumore era assordante nella memoria.
Gli chiesi: poi che accadde? A queste ombre che sembravano fantasmi?
«Le ombre erano, come ti ho detto, uomini, donne e bambini che camminavano davanti. Le altre sembravano soldati vestiti, alcuni, da militari, e spingevano con la canne dei fucili quelli che camminavano avanti. Tutti avevano un qualcosa di rosso al collo. Alcuni una giacca militare consunta. Parlavano un istriano strano, un istriano non delle nostre parti e altri non si capivano. Accenti di parlate mai sentite. Non erano istriani, dalmati, fiumani. Almeno dalla parlata. Ma era un linguaggio, comunque, italiano perché si distingueva bene da altro che sembravano però stranieri. Slavi? Però i fucili erano tra le mani di tutti che spingevano ragazzi, donne, uomini. Tra questi c’era una bambina stretta a una donna e piangevano disperate. Gli uomini con le giacche militari e altri avevano un rosso fazzoletto o qualcosa del genere al collo e in alcuni scendeva come cravattino sul petto. Sentimmo gridare soltanto. Uno di loro con il fucile tra le mani disse ad alta voce: Siete banditi e farete la fine che i banditi e gli usurpatori fascisti si meritano. Ma come? Mi dissi. Loro usurpatori? Ma non erano neppure fascisti. Erano semplicemente italiani. Cominciarono a spingerli sempre più in fretta fino a raggiungere una zona con buche, rocce più robuste, rocce profonde. Buche profonde. Spinsero uomini donne bambini e ragazzi verso questi che sembravano fossi scavati nelle rocce, nella terra rocciosa, inizialmente ma erano buche, anzi gole. Molti di queste persone, che erano sembrate ombre, vennero colpite con uno sparo di fucile o pistole alle gambe e spinte nelle gole della terra. Figlio mio che dirti di più? Anche la madre con la figlia stretta alla vita venne colpita. La mamma aveva chiamato la figlia “Irena, amore del mio cuore”. La bimba era piccola, camminava appena...».
Disse ancora mio padre. Aveva le lacrime agli occhi mentre mi raccontava tutto ciò. Poi riprese con calma...
«Sentii spari e grida. Vennero tutti buttati nelle gole della terra. Urla e pianti sotto un cielo che copriva il passare delle ore senza lancette. È come se il tempo fosse sparito. Erano rimaste le immagini di giorni in cui le grida avevano il terribile dell'uomo. Gettati come un oggetto qualsiasi nelle buche. Altro ancora. Alcuni soldati, anzi militari con giacche con stemmi rossi, si avvicinarono ai bordi di queste gole e si misero a sparare una scarica di mitra all’impazzata... E fu così. Spararono con ira fino a che le grida divennero lamenti».
E poi cosa accadde, ancora? Chiesi sempre a mio padre. Lui mi disse, appoggiando il viso sulla mano e piegando il gomito sul tavolo: «Cosa successe? Per anni nessuno volle credere a questa tragedia. Con molto ritardo si parlò di questi massacri. Ciò che ti ho raccontato è soltanto ciò che io ho visto. Ma tanti altri di queste tragedie si sono consumate in quel che venne definito il territorio delle Foibe. Figlio mio, il fatto più drammatico è che erano italiani. Italiani. Norma Crosetto è stata soltanto una delle migliaia. Erano italiani e vennero massacrati dai comunisti titini e non solo titini e nessuno ne parlò. Non volle parlarne. Ho negli occhi quella madre spaventa e barcollante con la figlia stretta alla vita».
Mio padre si alzò dalla sedia. Fece un giro per la casa e ritornò a riscaldarsi al fuoco. Si sdraiò sulla sua poltrona e mi guardò fisso negli occhi. I suoi erano lucidi. I miei atterriti. Mi sono detto. Ecco, mio padre mi ha raccontato, come in un film, una delle tante storie che chiamiamo l’eccidio delle Foibe. Una storia soltanto della grande tragedia. Eppure erano italiani.
Ho visitato di recente quei territori. Le tragedie sono nella storia. Non si dimenticano. Porto nello sguardo la donna e la figlia tra gli scavi della terra in roccia di morte. Le tragedie non hanno dimenticanza.