Sulla «Gazzetta» del 2 gennaio, con i buoni propositi di inizio d’anno, Onofrio Introna ha rivolto un appello all’unità delle forze progressiste che non mi pare abbia riscontrato la dovuta attenzione. Mi si potrebbe rispondere che è un invito talmente ovvio da non abbisognare di adesione esplicita. Troppo facile. L’invito è ovvio ma le implicazioni meriterebbero un qualche approfondimento.
Una spiegazione più realistica potrebbe essere la percezione della estrema difficoltà dell’operazione. Un’impresa che, allo stato delle cose, sembra disperata e persa in partenza. Chi, ragionevolmente, può pensare di mettere insieme in una coalizione, non solo PD e 5 Stelle, e siamo già ad alti livelli di difficoltà (tipo il tuffo carpiato triplo mortale indietro con doppio avvitamento), ma aggiungere poi Fratoianni e Renzi, Bonino e Bonelli, Calenda e Maggi, diventa una mission impossible che ci vuole Tom Cruise. Ma il dramma è che se si vuole vincere contro la destra di Meloni, ci devono stare tutti, nessuno escluso. Battaglia persa quindi? Ma diceva Nenni che ci sono battaglie che vale la pena di fare anche se sembrano perse, quando sono giuste.
Un’altra spiegazione, più preoccupante, potrebbe essere la scarsa convinzione che si tratti di un’operazione giusta e degna di essere perseguita. Come si può pensare, sempre in termini razionali, di arruolare nella stessa coalizione Renzi e Calenda che non si arruolano insieme neanche loro due? E la difficoltà, estrema, di dialogare, sempre in termini razionali, con i cinque stelle? E poi, siamo sicuri che i Grillini (come si chiamavano una volta, ora anche Grillo latita, meglio? peggio?) vogliano entrare in una coalizione con lo scopo di vincere, ma in un ruolo subordinato? E non preferiscano invece, anche inconsciamente, coltivare una diversità antagonista che li porti ad assumere un ruolo da protagonisti in uno status di opposizione? Non preferiscano, insomma, evitare di ripetere esperienze di governo che li hanno visti inadeguati al compito?
Rifugiarsi in una comoda opposizione è sempre una risorsa e, talvolta, un comodo approdo. Se così fosse, e non mi sento di escluderlo a priori, questo atteggiamento porterebbe fatalmente a una sconfitta del fronte progressista con la conseguenza che la destra continuerebbe a vincere imperterrita. Le elezioni dello scorso anno non avrebbero insegnato niente, con i danni che il governo sta producendo al tessuto economico, sociale ed anche culturale, non sottovalutiamolo, del paese.
C’è anche l’opzione che questa situazione divisiva sia figlia della scadenza delle elezioni europee, in cui le forze politiche si presentano autonomamente in un braccio di ferro a chi prende più voti per guadagnare la leadership della (costituenda?) coalizione? Forse è così, ma è un calcolo rischioso, e forse miope. Anche a destra andranno ognuno per conto proprio cercando anche loro di strappare voti agli alleati. Ma lì già si sa che la coalizione comunque c’è e si sa chi dà le carte. E questo la rende forte e attrattiva.
Diciamolo chiaramente. Non è che il Governo stia facendo grandi cose, più male che bene al consuntivo. Regge grazie al «mestiere» della Meloni, politica di razza (quella razza che a sinistra sembra scomparsa) e al fatto, che non è alle viste un’alternativa credibile. E un’alternativa credibile non si crea, artificialmente, in occasione di un prossimo appuntamento elettorale di coalizione, ma va costruita nel tempo, in maniera credibile e consapevole. Senza dire che, nel frattempo, coltivando divisioni strumentali a rubare voti all’alleato, si rischia di perdere realtà come Firenze e Bari, che non sono cose trascurabili.
Ha ragione quindi Onofrio Introna a lanciare il suo appello e hanno torto quanti lo snobbano.
Anche perché ancor oggi le forze politiche progressiste sembrano poco sensibili al tema e sembrano sottovalutare i pericoli. A Bari, ad esempio, restano ancorate al quesito «primarie sì, primarie no», che sembra un refrain di Elio e le Storie Tese e tendono più a dividersi che ad unirsi, rischiando, allegramente quanto irresponsabilmente, di favorire l’avversario.
L’unità va costruita giorno per giorno. Bisogna sapere che comporta rinunce dolorose, compromessi difficili da digerire, ma sapendo che non si può fare diversamente. È necessario creare da subito (e a Bari tempo ce n’è veramente poco) un grande movimento culturale (esistono ancora intellettuali d’area?) che esca allo scoperto e che sia in grado di mettere alle strette i politici troppo chiusi nei loro palazzi in conciliaboli spesso incomprensibili. Bisogna metterli di fronte alle responsabilità. La posta in gioco è alta. Altre sconfitte aprirebbero la strada ad una sorta di regime. Non manganelli e camicie nere (speriamo) ma certamente una linea di pressione sociale sui poveri e di controllo culturale. E quindi devono far sentire la loro voce, in senso unitario, le organizzazioni sindacali che sono le sole, oggi, a guidare un movimento di rivendicazione e di protesta. Devono mobilitarsi lavoratori e i ceti popolari per promuovere istanze di uguaglianza e giustizia sociale. E così il mondo dell’associazionismo e del volontariato che specie tra i giovani ha sostituito l’impegno politico. Un movimento che talloni le forze politiche esortandole/costringendole a trovare l’unità «a tutti i costi». Perché questo è lo slogan che deve guidare. Soprattutto è indispensabile coinvolgere i giovani, anche attraverso i social. Senza di loro, senza le loro idee, senza il loro impegno, senza il loro entusiasmo e la voglia di cambiare, non si va da nessuna parte.