Di mestiere faccio il linguista. E perciò accetto di buon grado l’invito che, con l’amichevole mediazione di Francesco D’Andria (che di mestiere fa l’archeologo), la «Gazzetta del Mezzogiorno» mi rivolge perché io dica la mia nel dibattito (di natura latamente linguistica) che in forma implicita sollecita Emanuele Greco (che pure lui di mestiere fa l’archeologo), nell’articolo intitolato «Quando gli “asini” vincono le Olimpiadi» («Gazzetta» di venerdì 17 novembre).
Titolo provocatorio, ovvio. Ma la sostanza dell’articolo è serissima, come provo a riassumere. Greco constata che, nei media tradizionali e nella rete, in trasmissioni e in articoli vari, si parla e si scrive di «Paralimpiadi» e di «giochi o atleti paralimpici», mentre l’etimologia richiederebbe «Paraolimpiadi» e «giochi o atleti paraolimpici». Le forme italiane nascono dalla fusione di due parole. Il prefisso «para-», di origine greca, presente in molte parole composte derivate dal greco o formate modernamente, nelle quali indica vicinanza, somiglianza, affinità; e il sostantivo «Olimpiadi» (con l’aggettivo derivato), originato da Olimpia, località sacra del Peloponneso, dove nel 776 a.C. si svolsero i primi Giochi.
La parola «Paralimpiade» definisce l’Olimpiade, estiva e invernale, riservata agli atleti disabili, che si disputa circa due settimane dopo la chiusura dei Giochi Olimpici, nella stessa sede e negli stessi impianti. Riservati a chi soffre di disabilità fisiche, i primi Giochi olimpici paralleli si disputarono nel 1960 a Roma, col nome di «Giochi internazionali per paraplegici». Iniziativa assai meritoria, mirante a tutelare il diritto allo sport e la partecipazione all'attività sportiva anche per le persone con disabilità. Si discute del nome, non delle finalità degnissime della manifestazione.
Non si preoccupi Emanuele Greco, nessuno oserà di accusarlo di pedanteria, non deve scusarsi, pur se mette le mani avanti: «Meglio pedante che analfabeta, oppure ignavo, che fa le spallucce e se ne frega, mentre tutti dicono giochi e atleti paralimpici». Linguisticamente Greco ha ragione, la «o» interna di «Paraolimpiade» ha un indiscutibile fondamento etimologico (nasce da Olimpia) che ne giustifica il mantenimento. Tanto più che la forma «Paraolimpiadi», documentata nell’italiano scritto almeno dal 1992, è stata assunta, insieme a «paraolimpico», nella lingua dei nostri documenti ufficiali a partire dal 2003. E dunque anche la storia, oltre all’etimologia, solleciterebbe il mantenimento di quella «o» interna di parola che comprensibilmente tanto ci appassiona.
«Paralimpiadi» e «giochi paralimpici» non sono frutto di banale ignoranza, la loro presenza nell’italiano ha una motivazione precisa che risiede nella genesi di queste parole, nella derivazione di entrambe dalla lingua inglese: Paralympics e Paralympics games sono le parole che, per prestito, hanno generato le forme italiane delle quali stiamo discutendo. Si tratta di un fenomeno assai più complesso del singolo caso, entrano in ballo i rapporti tra le lingue e l’atteggiamento che noi italiani abbiamo nei confronti della cultura anglo-americana, da decenni dominante nel contesto planetario: lingua internazionale per eccellenza, necessaria per esigenze lavorative, per viaggiare, per interagire nei contesti internazionali.
Parlare inglese significa di fatto essere in grado di comunicare nelle più diverse situazioni, non solo nella vita professionale ma anche, più generalmente, nella quotidianità.
Tutto ciò è indubbio. Ma nel contempo bisogna chiedersi se la profluvie di anglicismi che noi usiamo nella lingua quotidiana e nei contesti più diversi sia sempre necessaria, se in molti casi non sia possibile ricorrere a parole e forme italiane, esistenti e perfettamente funzionali. Al contrario, sono onnipresenti e insopportabili location (invece di «luogo», «sede») e mission (invece di «scopo», «programma»); risultano di difficile comprensione per un parlante italiano di media cultura altre come junk food, peacekeaper, stakeholder, che leggo dappertutto e a volte mi infastidiscono.
Anche in comunicati ufficiali come il «Piano Scuola 4.0», pubblicato con decreto del Ministro dell’Istruzione, dilagano anglicismi spesso incomprensibili, usati in continuazione. Mi chiedo cosa succederà nelle scuole di tutt’Italia quando dirigenti e professori discuteranno di attuare quanto il Ministero richiede.
Non si tratta, preciso subito, di ingaggiare battaglie contro la lingua inglese. Nessuno vuol tornare alla sciocca autarchia del periodo fascista, quando si traducevano perfino i cognomi, per cui Louis Armstrong diventava *Luigi Braccioforte, con irresistibile effetto comico. Né di infliggere multe a chi usa parole inglesi ritenute eccessive, magari comminando una sanzione amministrativa consistente «nel pagamento di una somma da 5.000 euro a 100.000 euro», come vorrebbe una proposta di legge recentemente presentata a Montecitorio e di fatto inattuabile (come tante cose italiane).
Torniamo al punto di partenza. Il tipo senza la «o» («Paralimpiadi», «paralimpico») prevale nella lingua dei giornali in particolare e in quella della rete in generale, come dimostra la semplice interrogazione di un motore di ricerca. Se fossimo consapevoli dei processi linguistici sottostanti al lessico, sceglieremmo «Paralimpiadi», «paralimpico» se volessimo ricorre all’anglicismo. Ricorreremmo a «Paraolimpiadi» e a «paraolimpico» se guardassimo all’etimologia e alla storia della nostra lingua. Da rifiutare senza rimpianti «parolimpiadi» e «parolimpico», termini rarissimi. Così andrebbero le cose, se fossimo consapevoli di come funziona la nostra lingua.
I temi implicitamente evocati da Emanuele Greco hanno enorme portata. Ci sforziamo, a ragione e per nostro vantaggio, di conoscere le lingue straniere e nello stesso tempo, con superficialità, ci riduciamo a usare l’italiano senza consapevolezza, a volte maldestramente, in maniera stentata, o con errori grossolani. Inascoltati, dalla scuola i professori lanciano continui gridi d’allarme. Conoscenza dell’inglese e padronanza piena della propria lingua non sono in conflitto. Se non è necessario ricorrere a forestierismi, le lingue possono avvalersi delle risorse proprie. Senza aperture inutili e senza barriere pregiudiziali.
Salvaguardare la propria cultura non vuol dire chiudersi nel monolinguismo. Il cervello umano consente di padroneggiare più lingue, il plurilinguismo è ricchezza. In ecologia e in agricoltura la monocoltura è dannosa. Anche nei rapporti tra i popoli e nelle relazioni internazionali il monolinguismo non paga. Vale per la propria lingua, vale per le lingue forestiere. Al contrario delle apparenze, l’inglese da solo non basta. Il processo di globalizzazione richiede strategie adeguate, anche in linguistica.