La fine di una relazione, quella tra Giorgia e Giambruno, il gioco pericoloso dello scherzo equivoco del latin lover è una trappola culturale che finisce per sfuggirci di mano e diventare la goccia che fa traboccare il vaso delle relazioni.
Innanzi tutto, grande rispetto per la notizia appresa da giornali e social in cui la Presidente annuncia la fine della relazione con Andrea Giambruno, perché solo loro – e forse neanche con oggettività – sanno davvero cosa sta accadendo a quello che è il primo figlio di una coppia, ovvero il loro rapporto, di dieci anni. Al centro delle polemiche quello che avrebbe scatenato la decisione della premier, i fuori onda con alcune espressioni colorite di Giambruno, soprattutto negli scambi con alcune conduttrici dei programmi Mediaset, ma anche in contesti più istituzionali come un convegno a Pavia in cui – sempre accidentalmente, a microfoni aperti a sua insaputa- si confida con l’assessora al turismo della regione Lombardia, Barbara Mazzali, confessando di sentirsi oggetto di mistificazione ogni qual volta esprime le proprie idee, arrivando ad essere «terrorizzato da tutto».
Probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso, in una relazione che senza fatica si può immaginare quanto possa essere complicata, tra i tempi di due genitori in carriera – non comune nel caso di Giorgia – e le pressioni continue di coloro che sfruttano ogni informazione, spesso indirizzandola e trasformandola in pettegolezzo, per motivi di audience. E nonostante lei abbia commentato la propria scelta definendola ormai necessaria, senza rinnegare i bei momenti insieme e il dono della figlia Ginevra, a cui assicura un futuro con entrambi i genitori presenti e legittimati a svolgere la loro funzione, c’è da chiedersi se effettivamente questa scelta sia stata influenzata da questi ultimi episodi di esposizione mediatica del suo compagno che è pur sempre chiamato a rispondere ad un’immagine di natura istituzionale. Lei, infatti, in proposito dice che continuerà a difendere il proprio privato, da coloro che tentano di attaccarlo – e forse ci riescono – usando la metafora dell’acqua e della pietra, che se è vero che talvolta può scalfire la sua dura forma, sempre acqua rimane. Si percepisce tutto l’astio in queste parole, verso un complotto mediatico, che magari avrà fatto leva su qualcosa che di fatto esiste e che forse nei limiti di una condizione precaria di vulnerabilità affettiva, avrebbe tenuto alla lunga e chissà sarebbe stato gestito e forse risolto, come in tante situazioni meno note di coppia, complicate e talvolta disfunzionali, che pur tuttavia se affrontate possono essere il preludio di un cambiamento funzionale e di una evoluzione della relazione personale e famigliare. Il giornalista Andrea Giambruno già sotto i riflettori durante gli ultimi episodi di stupro di gruppo, in cui aveva commentato «di fare attenzione a bere se vuoi incontrare il lupo», mettendo in difficoltà la Meloni, in una narrazione collettiva che vuole smettere di incolpare le donne e di renderle comunque responsabili della violenza subìta, perpetuando un pensiero maschilista che attenua sempre la responsabilità maschile a danno di quella femminile. E la espone nuovamente quando sempre il suo compagno Giambruno in questi fuori onda di cui è «vittima», sembra approcciare le conduttrici colleghe sulla dinamica maschile e femminile, con un’ironia sessualizzata, che indugia su apprezzamenti fisici e opportunità di carriera fondati su scambi sessuali, utilizzando frasi con riferimenti espliciti e ambigui al contempo, che gli consentono quindi di difendersi sostenendo che siano solo scherzi. E scherzi probabilmente sono, quelli che ormai riempiono anche le chat e i messaggi dei social network di molti, approcci e modi di fare equivoci, che sembrerebbero innocui se non fosse che il linguaggio e il modo di fare rappresentano la nostra realtà e che una parola detta, verbalizzata, diventa fatto, dato di realtà.
Non è raro ascoltare nei dialoghi tra colleghi battute fuori luogo, linguaggio informale, spinto e scurrile fatto di complimenti sessualizzati, in cui una rappresentazione della relazione uomo donna ridotta a corpi oggettualizzati nello scherzo ambiguo e malizioso sembra ormai la normalità, anzi un dovere. Chiamarsi, «amore, tesoro», dirsi «ti voglio bene, ti amo» come forma di dialogo persuasivo in relazioni formali, può diventare una bomba ad orologeria quando si perdono i confini tra pubblico e privato. Una maschera di ruolo che manifesta la virilità maschile a cui corrisponde una maschera di ruolo femminile che vorrebbe la donna compiacente e ammiccante, se non proprio responsabile del comportamento ottenuto, fino alle varie forme di invadenza e violenza. E se non lo ricambia, allora è malata, diversa, strana. Una rappresentazione più innocua della donna oggettificata, che per non essere discriminata deve in qualche modo «stare al gioco, allo scherzo», anche se non si diverte o lo trova banale irriverente. E viceversa quando accade al contrario, più sporadicamente, da parte della donna (mascolinizzata) verso l’uomo, con l’attenuante che spesso non incorre in abuso di potere in quanto spesso sottorappresentata nei ruoli apicali e non avvezza culturalmente ad acquisire «senso di potere» con il dominio e il possesso, tipico di culture maschiliste fondate sul patriarcato non rielaborato in chiave funzionale.
Una lettura possibile è provare ad immaginare che anche la nostra cultura è arrivata a subire le estreme conseguenze di un comportamento collettivo (anche inconscio) che miete vittime, sul piano fisico, mentale, sociale e che va cambiato per il bene di tutti. Una buona presa di coscienza e di posizione su ciò che va bene e ciò che va male, a partire da sé stessi, può aiutare a non cadere in una trappola inconsapevole, in cui trovarsi a posteriori imbrigliati ingiustamente, con conseguenze personali ma anche di terzi, come i figli, i quali sono le vere vittime innocenti di un male che – forse - si poteva evitare.