Lo dico con franchezza: la recensione di Oscar Iarussi al magnifico volume di Giuseppe Lupo dal titolo La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana (Marsilio ed.), è splendida ed anche (almeno per me) del tutto inattesa. Splendida perché redatta con raffinatezza interpretativa da un Direttore coltissimo, già brillante allievo di miei autorevoli colleghi - fra i quali mi piace ricordare l’anglista Vito Amoruso e l’indimenticabile Franco Cassano – per lunghi anni curatore della pagina culturale di questa testata e critico cinematografico. Ma la recensione - per me convinto industrialista che per ragioni di lavoro leggo ogni giorno almeno due edizioni locali della «Gazzetta» - è giunta del tutto inattesa, ma molto piacevolmente inattesa, perché quel pregiudizio antindustriale e perciò di fatto antimoderno di cui parla Lupo sembra ormai pervadere invasivamente larghi settori dell’opinione pubblica di Puglia e Basilicata - sulla spinta degli eventi nel Siderurgico di Taranto e in altri poli manifatturieri e petroliferi pugliesi e lucani - con dichiarate venature almeno in alcune località (da Manfredonia a Brindisi, dal capoluogo ionico al bacino petrolifero della Val d’Agri) di un radicalismo ormai irriducibile.
Allora, a mio sommesso parere, c’è voluto coraggio da parte del Direttore a condividere consapevolmente le tesi sostenute da Lupo, aggiungendo che quella ipoteca antindustriale da lui evidenziata respinge continuamente all’indietro soprattutto l’immaginario del Sud, in particolare verso «un’arcadia bucolica e la presunta armonia perduta del lavoro contadino». Un’affermazione, questa di Iarussi, che demolisce con l’autorevolezza del suo autore decenni di perorazioni regressive diffuse purtroppo in Puglia e Basilicata, espresse da coloro i quali - invece di esigere, come tutti noi del resto, un funzionamento sempre più ecosostenibile di aziende siderurgiche, petrolchimiche, energetiche, di estrazioni petrolifere, di termovalorizzatori e di depositi di GNL - ne pretendono o le dismissioni spesso in forme coatte, sollecitando interventi della Magistratura, là dove quelle aziende sono in esercizio, o il rifiuto all’insediamento là dove se ne prospettino nuovi investimenti.
E in tale contesto, come non condividere pienamente l’altra acuta notazione di Iarussi il quale parlando di Taranto - ove come lui scrive «la fabbrica resiste» - afferma che in questa città si è sviluppata una «letteratura di autorappresentazione apocalittica» che alle contraddizioni del presente predilige la chimera di un improbabile ritorno alla madre terra? A Taranto da tempo si sta tentando persino di cancellare dalla memoria collettiva cosa ha significato (e tuttora rappresenti) l’imponente fabbrica siderurgica che, peraltro, è ancora la più grande d’Italia per numero di addetti diretti (8.168), cui si aggiungono gli oltre 5.000 nell’indotto.
Ora intendiamoci bene, tutti coloro che difendono con determinazione «la civiltà delle macchine» e i compendi industriali di varie dimensioni che nei diversi comparti conferiscono sostanza a quella «civiltà» dando occupazione a uomini, donne, giovani, manager, tecnici ed operai, vogliono e si impegnano nell’ambito delle rispettive competenze affinché le industrie operino con tecnologie e procedure di esercizio che le rendano sempre più ecosostenibili per la difesa della salute e dell’ambiente. È una ovvietà, certo, ne siamo consapevoli, ma è opportuno ricordare, solo per fare un esempio, che non solo bisogna ridurre le emissioni di CO2 come prescritto dalla UE, ma che già oggi è possibile catturarla con tecnologie avanzate immettendola poi in giacimenti esausti di gas e petrolio. E così accade per la produzione di acciaio, che già si realizza nell’elettrosiderurgia italiana in forni elettrici rendendola così molto meno impattante sugli ecosistemi del suo insediamento. E lo stesso dicasi per la crescente generazione di energia da fonte eolica e fotovoltaica - di cui peraltro la Puglia è una delle maggiori piazzeforti nazionali - ma che ha bisogno di aree idonee on-shore ed off-shore perché se ne possano produrre maggiori quantità.
Ma la stessa agricoltura oggi in molti bacini territoriali con produzioni altamente competitive ed export oriented è condotta anche con l’impiego di tecnologie avanzate, sensori e droni e assiste alla diffusione di colture idroponiche e a raccolta di prodotti con macchine agricole modernissime.
Insomma non possiamo nutrire alcuna nostalgia per un passato premoderno e preindustriale, in cui, non lo si dimentichi mai, la durata della vita media era molto più breve di quella odierna, e si moriva per la malaria e per la sottonutrizione.
Allora la splendida recensione di Oscar Iarussi all’altrettanto splendido volume di Giuseppe Lupo ci incoraggia nella battaglia culturale in difesa di una modernità industriale che dovrà essere sempre più ecosostenibile e al servizio delle grandi sfide che l’umanità intera sta affrontando.