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Il peso della mitologia europea e l’identità nazionale in un Paese che si ama e si odia

 
Marcello Foa

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Marcello Foa

Il peso della mitologia europea e l’identità nazionale in un Paese che si ama e si odia

Un volume uscito recentemente spicca per originalità e profondità, scritto dal compianto Antonio Pilati e da Riccardo Pugnalin. Si intitola «Mitologie italiane. Idee che hanno deviato la storia», edito da Luiss Press University

Venerdì 04 Agosto 2023, 12:00

In un’epoca in cui il dibattito politico e intellettuale appare tanto feroce nella forma, quanto effimero e leggero nella sostanza, un volume uscito recentemente spicca per originalità e profondità. È un libricino di nemmeno cento pagine, scritto dal compianto Antonio Pilati e da un manager di grande solidità intellettuale quale Riccardo Pugnalin. Si intitola «Mitologie italiane. Idee che hanno deviato la storia», edito da Luiss Press University e, a conferma che non sempre sono necessari tomi interminabili per cogliere nel segno, propone una brillante analisi dell’evoluzione storica dell’Italia. Brillante quanto amara e disincantata che spiega i problemi e le contraddizioni dell’Italia di oggi.

Nella loro affascinante galoppata, Pilati e Pugnalin rilevano come il primo grande mito nazionale, quello unitario, sorto nel 1861 sia stato in realtà un fallimento perché incentrato sulla convinzione che l’Italia avesse una missione speciale in forza della sua cultura, della sua storia, dell’eccellenza del suo pensiero; una missione, in sintonia con lo spirito di allora, ha portato che rapidamente a perseguire un nuovo Impero, il quale, però, non corrispondeva al carattere, all’indole, alle peculiarità nazionali. «La storia italiana è fatta di commerci e di varietà politica, di diversità latitudinali, culturali, linguistiche. Il mito, al contrario, prevede l’unità orientata alla conquista imperiale», scrivono i due autori, rilevando come Mussolini abbia portato all’estremo ambizioni che in realtà erano maturate nei sessant’anni antecedenti al Ventennio. Inclinazione civile e indirizzo strategico sono andate via via divergendo, fino al tracollo della Seconda Guerra Mondiale, lasciando un segno profondo nella cultura identitaria italiana, che non a caso è rimasta frammentata e autoprotettiva. Dunque un’Italia cresciuta in dissonanza fra quel che le sue élite volevano diventasse e quel che in realtà era.

Il secondo grande mito che ha segnato la nostra storia è quello europeista ed è emerso al termine di un lungo periodo di congelamento, quello della Guerra Fredda, in cui la logica dei blocchi contrapposti ha di fatto limitato la possibilità di un nuovo slancio identitario. Ma con la caduta del Muro di Berlino e il conseguente avvento della globalizzazione il nuovo mito ha preso forma, di segno completamente opposto al primo. Non più vagheggiando un’irrealistica superiorità nazionale, ma anelando una partecipazione condivisa, e dunque idealizzando la partecipazione a un grande sogno salvifico, capace, di risolvere, per osmosi dall’esterno, gli atavici problemi italiani. Pilati e Pugnalin ritengono che l’Italia sia rimasta vittima di una scissione fra due concezioni d’Europa, quella idealistica di una nuova, grande e concorde comunità e «quella vigente che impiega le istituzioni di Bruxelles e Francoforte come strumenti per massimizzare il potere nazionale», convalidando a distanza di decenni il famoso aforisma di Montanelli, il quale scrisse: «Quando si farà l’Europa unita, i francesi ci entreranno da francesi, i tedeschi da tedeschi , gli italiani da europei».

Indro aveva ragione: proprio noi italiani, indisciplinati per eccellenza, siamo stati l’unico fra i grandi Paesi fondatori a credere davvero a regole del gioco autenticamente condivise. E, paradossalmente, a perdere fiducia in noi stessi. «Nel periodo europeista vige un auto-deprezzamento che scompone il tessuto sociale e disperde il benessere», che porta alla soggezione culturale e conseguentemente all’incapacità di definire l’interesse nazionale e di difenderlo in tutte le sedi necessarie. Sempre tattici, mai strategici, psicologicamente sottomessi perché condizionati da un auto-inganno: «L’adesione nostalgica a un’ideologia terapeutica diventa orizzonte mentale, habitus operativo che si esprime in un’ansiosa diligenza da primo della classe». Una delle conclusioni di Pilati e Pugnalin è durissima: «Finché regge, la mitologia europea continua a fornire lo strumento per evitare di confrontarsi con ogni esercizio di pensiero e di azione più difficile ma più aderente alla realtà».

Già, ma quanto dura? I due autori non fanno, saggiamente, previsioni ma si limitano a biasimare i governi tecnocratici e ad auspicare nuove soluzioni capaci di conciliare identità nazionali, libertà e crescita.

Scuotono l’albero, rispolverando il ruolo più autentico degli intellettuali, quello di indurre il lettore a porsi domande coraggiose. Ci vuole più Europa? O meno Europa? E con quale ruolo per l’Italia? È possibile conciliare le democrazie, che per loro natura si basano sulla sovranità popolare, con un reticolo di leggi ed organismi e sovranazionali sempre più vincolante che svuota il concetto stesso di sovranità? Domande coraggiose, dunque scomode, eppure essenziali. Domande sospese nel vuoto in un Paese che appare unito e al contempo parcellizzato, che si ama e che si odia, ancora alla ricerca di se stesso.

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