Negli ultimi tempi, in occasione delle elezioni politiche tenutesi in un Paese del Continente europeo, quasi sempre c’è toccato commentare la vittoria di partiti estremi e radicali di destra, di sinistra e qualche volta - come nel caso del Movimento 5 Stelle - di difficile collocazione lungo il continuum destra/sinistra. Questa volta non è stato così. In Spagna è accaduto qualcosa di differente. I risultati sembrerebbero indicare che le cose siano tornate al loro posto: successo politico e numerico delle forze tradizionalmente egemoni nei due campi contrapposti - popolari e socialisti -, conseguente ridimensionamento delle estreme tornate a occupare una posizione se non ancillare quanto meno subordinata. Lo schema classico dei sistemi bipolari parrebbe essere tornato in auge: i partiti di centro-destra e di centro-sinistra vettori d’integrazione delle istanze più radicali dei rispettivi campi, nella cornice di una dinamica centripeta che valorizza e rende decisivo il suffragio dell’elettore che di volta in volta, sulla base dei programmi e della valutazione degli uomini, è disposto pragmaticamente a scegliere questo o quello schieramento.
Di fronte a tale risultato - a prescindere da come andrà a finire la difficile ricerca di una maggioranza governativa -, in tanti in Italia hanno tirato un sospiro di sollievo scorgendo nel voto spagnolo l’anticipazione di ciò che presto potrebbe accadere nel nostro Paese. Si è così prodotta una sorta di attualizzazione di una formula antica e nobile: «oggi in Spagna, domani in Italia». E ci si è scordati di quanto a lungo, quando quella formula fu coniata, l’aspettativa che essa conteneva restò invece frustrata. Fuor di metafora: a me pare che il risultato spagnolo sia stato certamente rilevante, ma il suo significato è meno scontato di quanto si è voluto credere. Esso, per questo, merita un supplemento di analisi.
Con ogni probabilità stiamo vivendo la coda di un periodo storico contrassegnato da proteste esasperate suscitate da quelle che una parte consistente dell’elettorato ha valutato come «le promesse mancate della globalizzazione». In questi ultimi vent’anni abbiamo visto finire sul banco degli imputati i mercatismi estremi e i loro interpreti, il diritto applicato da corti di giustizia avvertite come distanti dalla concretezza del vivere quotidiano, il predominio di tecnocrazie apparse per lo più svincolate dal rispetto della sovranità del popolo, la trasformazione della moralità tradizionale in un mix di moralismo e permissivismo spesso fortemente contraddittorio. Le opinioni pubbliche europee si sono così distaccate dalle forze politiche apparse più disposte ad assecondare tali processi. Una parte di esse si è rifugiata nell’astensione, un’altra ha premiato i partiti radicali che hanno rivalutato il concetto di sovranità, che hanno criticato gli eccessi della soprannazionalità contrapponendo ad essa il locale (e più spesso il localismo), che hanno privilegiato la concretezza all’astrattezza dei principi, che attraverso la valorizzazione dell’identità hanno contrapposto il senso comune al politicamente corretto.
Il doppio salto mortale che pandemia e guerra in Ucraina hanno fatto fare all’umanità sta forse convincendo una parte dell’elettorato che si era radicalizzato a riconsiderare come nel mondo di oggi sia veramente difficile poter fare a meno di istituzioni che ambiscano a gestire i fenomeni globali e le loro conseguenze. Non per questo, però, come per incanto si tornerà al mondo di ieri. Le ragioni di fondo della «grande protesta» non sono svanite nel nulla e, per questo, misconoscerle potrebbe risultare un errore fatale. Semmai, bisognerebbe provare a ricondurle in schemi generali meno esasperati.
A me sembra che, su fronti contrapposti, ai popolari e ai socialisti spagnoli sia riuscita proprio questa operazione. I primi hanno secolarizzato molte critiche e rivendicazioni delle quali l’estrema destra di Vox ha per un periodo avuto il monopolio; i secondi hanno saputo riprendere i temi classici legati al lavoro e al disagio sociale evitando di appiattirsi sui cosiddetti «nuovi diritti». Il loro successo, insomma, più che dichiarare chiusa la stagione della protesta ha attestato come con essa si debbano saper fare i conti. Ed è questo che dovrebbero comprendere le forze non radicali italiane. Per loro non vi sarà nessuna restaurazione e nessuna rivincita, senza una profonda riconsiderazione dell’ultimo ventennio e la conseguente revisione di programmi, parole d’ordine e persone da sottoporre al corpo elettorale.