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Silvio esce di scena, ma il testamento politico è rimasto in bianco

 
Leonardo Petrocelli

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Leonardo Petrocelli

Silvio esce di scena, ma il testamento politico è rimasto in bianco

Resta la domanda: perché un uomo capace di selezionare - con chirurgica efficacia - collaboratori, direttori sportivi, manager e allenatori non è riuscito a coltivare un allievo politico?

Giovedì 15 Giugno 2023, 13:21

15:53

Non deve sorprendere che l’unico vero frutto politico del berlusconismo, Matteo Renzi, sia germogliato lontano dall’albero. Quasi un seme fosse volato dall’altra parte della staccionata. Silvio Berlusconi non ha lasciato eredi politici. Come una sorta di Crono brianzolo li ha divorati tutti affinché non ne rimanesse nemmeno uno. Fitto, Marchini, Alfano, Frattini, Toti, Bertolaso, solo per citarne una manciata e in ordine sparso. Qualcuno lo ha «azzoppato», altri sono stati liquidati, altri ancora lasciati evaporare. Anche Renzi, a dirla tutta, lo ha segato lui. Alla fine, è rimasta solo la confortante solidità del coordinatore Antonio Tajani che, però, non è un agitatore di folle né un leader da 40% dei consensi.

Resta la domanda: perché un uomo capace di selezionare - con chirurgica efficacia - collaboratori, direttori sportivi, manager e allenatori non è riuscito a coltivare un allievo politico? Semplicemente perché non ha voluto. Al pari di Angela Merkel, Vladimir Putin, Tony Blair e Nicolas Sarkozy. I leader europei, ognuno secondo le proprie sfumature di grigio, non hanno provveduto a darsi una successione per lo stesso motivo per cui in Occidente non si fanno più figli. E qui ci vuol poco a mettere in pista tutto il cucuzzaro della sociologia contemporanea, da Marc Augé a Zygmunt Bauman: il mito dell’eterno presente, l’ossessione del qui e ora, l’ascesa a Dei di se stessi e, soprattutto, il rifiuto del principio di realtà. Finché non compaiono eredi o, se compaiono, vengono fatti fuori, la permanenza in campo del patriarca diventa quasi un obbligo. Davanti alla platea e alla propria coscienza. Si forza la Storia con un acronimo tanto caro alla Thatcher: «Tina». There is no alternative. Non c’è alternativa.

A quel punto, l’unico limite diventa quello biologico (il principio di realtà, appunto) che, però, si provvede prontamente a esorcizzare con qualche ritocco e taciute pretese di immortalità. Marcello Marchesi avrebbe commentato: «Chi non muore si risiede». Finché non si stende.

A conti fatti, Berlusconi ha finito per assomigliare a una delle sue tante creature, la televisione commerciale, che, per dirla con Carlo Freccero, altro non è che «la fabbrica della ripetizione». Silvio ha continuato a ripetere se stesso: mettetevi in proprio, facciamo la rivoluzione liberale, a chi affidereste i vostri soldi, alla sinistra o a me che ho fatto i miliardi? Dopo un po’ il disco, già inceppato, si è rotto. Il mondo è andato avanti e lui, fatalmente, è rimasto indietro. Un po’ come il suo Milan che, da un certo punto in poi, nel calcio degli oligarchi e degli emiri, ha cominciato a non vincere quasi più nulla. Buon senso avrebbe suggerito una rapida cessione ma il Cavaliere si è ostinato, rimandando la resa di dieci anni, rigonfi di veleni e frustrazioni. Ma, vaglielo a spiegare, la fine di qualcosa non è la fine di tutto. Venduto il Milan, poteva prendersi il Monza. Due lustri prima. E ricominciare una nuova avventura con un abito più adatto alle sue nuove forme. E invece nulla. Avanti comunque, fino all’inevitabile.

Il principio del limite è il nuovo unicorno d’Occidente. Una creatura mitologica, introvabile. E così il Paperone con un impero da sette miliardi euro, cinque figli e diciassette nipoti, oltre a non avere eredi politici, rischia di non lasciare nemmeno una eredità politica. Forza Italia potrebbe trovare presto un posto nel mausoleo di famiglia, svuotata dalla dipartita del suo fondatore e spolpata dagli appetiti altrui. Meloni, Salvini, Renzi, Calenda. Sono tutti lì a vedere, con contrito interesse, cosa di buono si può prendere dal regno senza re.

Resta, dunque, il patrimonio immateriale. Non la «rivoluzione liberale», altra chimera in svendita ai saldi da opporre a comunisti che vedeva solo lui. In tempi di sovranisti arrabbiati e talebani arcobaleno è meglio lasciar perdere. Piuttosto, come hanno evidenziato Luciano Canfora e Marcello Foa sulle colonne della «Gazzetta», il suo miglior lascito è stata quella traccia di politica estera autonoma e lucida, un po’ meditata un po’ improvvisata, ma comunque efficace, nel solco dei Moro, degli Andreotti e dei Craxi. Un’eredità, questa sì, preziosa che però, se davvero Giorgia Meloni lancerà l’Opa su Forza Italia, rischia di finire fucilata da qualche baionetta regalata a Zelensky in nome di un occidentalismo ottuso e di una russofobia servile. E così tutto, ma proprio tutto, sarà perduto.

La verità è che preparare l’uscita di scena è difficile quanto organizzare l’entrata in scena. Berlusconi, l’uomo degli ingressi trionfali, ha curato alla perfezione la seconda ma ha completamente trascurato la prima, convinto com’era che quel Dio di cui raccontava nelle sue barzellette («Silvio, mi piace l’idea di trasformare il Paradiso in una s.p.a., ma perché devo fare io il vicepresidente?») l’avrebbe rimandata all’infinito. Ma lassù le illusioni degli uomini contano poco ed è successo quel che è successo. E ora tutto balla sulle bocche di odiatori seriali e di prefiche in odor di disoccupazione. Si poteva far meglio, molto meglio. Presidente, ci consenta.

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