Non si nasce liberi , non si nasce uguali. Da questa convinzione nasce la Scuola popolare di Barbiana. E dall’articolo 3 della Costituzione italiana. «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Il suo insegnamento era, per sua stessa definizione, finalizzato alla «elevazione civile di chi era nato fra gli ultimi della scala sociale». E per prima cosa riguardava il dovere di insegnare la lingua. La quale da appannaggio delle classi superiori doveva divenire parola per tutti. Significava dunque dare la parola a chi ne nasceva privo. La parola come sapere, come conoscenza, come coscienza di se nello stare al mondo, «per essere - egli diceva - cittadini sovrani». In una sola classe vi erano i ragazzi dalla prima alla quinta elementare di quella zona isolata di montagna del Comune di Vicchio. Gli ultimi 3 chilometri si dovevano fare a piedi. Don Lorenzo leggeva e commentava l’attualità dai giornali, faceva viaggiare la mente dei ragazzi indicando sulla carta geografica i continenti del mondo. Loro imparavano francese e inglese in quell’angolo sperduto.
«Nella lettera ad una professoressa» scrisse fra l’altro: «La scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde». La scuola dell’obbligo ne perde per strada 462mila l'anno. A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi che li perdete e non tornate a cercarli. Non noi che li troviamo nei campi e nelle fabbriche». I care: mi prendo cura, mi preoccupo per te fu il motto deliberatamente scelto e contrapposto «al me ne frego» del lascito fascista. Interpretò il Vangelo oltre i canoni ufficiali della Chiesa del tempo.
Il suo libro «Esperienze pastorali» fu proibito di stampa e diffusione dal Sant’Uffizio; per essere ripubblicato solo nel 2014. Furono molte le testate televisive che chiesero di intervistarlo. Anche francesi e tedesche. Si sottrasse ai riflettori dei media. Solo alla fine si concesse a un suo amico regista nel presentimento della morte . Ma furono i media ad occuparsi di lui. Informando delle ingiunzioni delle gerarchie ecclesiastiche. A cui si aggiungevano lettere anonime di minacce e denigrazioni.
Sarà la visita sulla sua tomba di Papa Francesco nel 2017 a rivalutarne la grandezza, a indicare esempio pastorale e virtù civili.
Fu processato per una lettera ai cappellani militari in cui si dichiarava a favore della obiezione di coscienza. La lettera fu pubblicata a stralci da diversi quotidiani, con commenti di condanna. Fu pubblicata integralmente da Rinascita, settimanale del Pci. Il suo direttore Luca Pavolini fu per questo condannato a 4 mesi con la condizionale. Per don Milani, la sentenza non fu emessa ; era stato già vinto da un male incurabile. Nelle sue ultime volontà volle essere sepolto con abito talare e scarponi. Per dire del suo rapporto fra terra e cielo.
Oggi ricordarlo vuol dire interrogarsi sulla funzione della scuola. Non come somma di nozioni. Quanto come promozione di cittadini sovrani. Specialmente dei cittadini digitali. Che rischiano di essere solo consumatori acritici di informazioni inondate dalle piattaforme. E di essere privati delle conoscenze e delle esperienze che nascono dalla dimensione specifica dell’umano. Quella fisica e interpersonale che promuove all’incontro con l’altro. Come recita ancora l’articolo 3 della Costituzione italiana: «Tutti hanno dignità sociale, sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».