Alla psicanalisi hanno attinto a piene mani gli osservatori politici per commentare il divorzio tra Renzi e Calenda. L’argomento è noto: come potevano stare insieme due egolatrie così esuberanti e così «assolutiste»? Con quale collante appiccicare fra loro sotto lo stesso cielo due primedonne, sicuramente di caratura non banale, ma totalmente piegate alla seduzione di un protagonismo che non ammette passi indietro né laterali, nel convincimento che il mondo abbia bisogno di uno solo di loro per salvarsi, e questo non è l’altro?
«Troppo tempo è durato l’improbabile sodalizio» è stato detto, e, francamente non si può non convenire, essendo noi, anche da queste colonne, sostenitori di un uso degli strumenti della psicanalisi per capire la politica odierna.
Anzi, talvolta anche della psichiatria. Ma sarebbe un errore liquidare il fallimento del «Terzo polo» solo per ragioni di incompatibilità caratteriali tra i due esuberanti «consoli», peraltro formula inedita per governare i movimenti politici al tempo del leaderismo imperante. Per capire meglio, però, occorre ancora una volta un po’ di politica perduta. Può essere un partito solo comunicazione, tatticismo (qualcuno direbbe «furbizia») e ceto politico? O forse occorre anche cultura, capacità di rappresentanza di un popolo, visione, speranza, passione, insomma tutte quelle cose che facevano grandi e stabili nel consenso i partiti di massa? E, visto che ci poniamo qualche domanda, c’è posto nella scena pubblica italiana per un Terzo Polo che vada oltre l’autocollocazione toponomastica, in un passaggio storico che sembrerebbe chiudere il gioco politico nella tenaglia bipolare?
Quest’anno cade il trentennale del Mattarellum, la legge elettorale che segna non solo la nascita della Seconda Repubblica, ma anche quella dell’avvento dello schema bipolare senza il «Centro». Da allora si è assistito ad un ossessivo avvicendarsi di sigle e suggestioni ostinatamente volte alla rifondazione della Democrazia cristiana, con o senza scudi e scudetti.
È stato il festival del nostalgismo, puntualmente sconfitto dalle urne. Domandiamoci perché. Forse perché non c’è più una base popolare per quel progetto. Sì, certo, la maggioranza degli italiani si autodefinirebbe centrista e del resto nelle liberaldemocrazie diffuse nel mondo va così. Ma la stretta bipolare tende a sottrarre per assorbimento lo spazio vitale alle formazioni di mezzo, se non hanno un ancoraggio popolare originale. In Italia, poi, la tenaglia Meloni-Schlein tenderebbe ad asciugare lo spazio centrista, come hanno raccontato i magrissimi risultati delle urne regionali, dal voto in Lombardia, nel Lazio e, da ultimo, in Friuli.
E poi c’è la «cultura», che non è un orpello in politica, ma sostanza. Di quale visione del mondo, di quale sistema valoriale che vada oltre la comunicazione e l’«immediato», sono portatori i terzopolisti che offrono oggi le loro merci sul mercato politico italiano? Il neo- azionismo elitario di Calenda, che ne riprodurrebbe anche i magri risultati elettorali (1,5% alla Costituente), o il pragmatismo senza oneri ideologici di Renzi,che sembra invece inseguire il progetto di un abbraccio con i berlusconiani?
Insomma: il popolo del Centro, inteso come luogo di proposta politica impastato di cultura democratica e solidale, ci sarebbe pure e probabilmente non sarebbe neanche così esiguo. Forse molta parte di quel popolo ha abbandonato le urne. Manca ancora chi se ne faccia carico per farlo ritornare.