Nella memoria visiva di molti, la Via Crucis ha come riferimento emblematico l’evento serale che, ormai da anni, il Venerdì santo si celebra al Colosseo, con la presenza del Papa, sotto i riflettori delle tv. Pochi sono, però, a conoscenza che le “stazioni” che costellano quell’anfiteatro romano furono insediate il 27 dicembre 1750 da un frate minore francescano, san Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751), che era stato per oltre quarant’anni il predicatore più acclamato d’Italia, che percorreva in lungo e in largo con le sue “missioni” (ne tenne 343) e spesso suggellava questi corsi di predicazione popolare con l’erezione di una Via Crucis (ne istituì ben 572!), che gli sembrava la risposta più forte ai giansenisti e agli illuministi, dando così impulso ad una pratica devozionale che risaliva ai secoli precedenti.
Ma il primo a codificare in senso stretto questa sequenza di soste oranti o “stazioni” che rappresentavano i vari eventi (evangelici e apocrifi) delle ultime ore della vita di Cristo pare sia stato il beato domenicano spagnolo quattrocentesco Alvaro di Cordova che, al ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta, volle perpetuare la memoria di quella sua esperienza spirituale-topografica. In realtà, la sorgente più remota di una devozione che scandisce ancor oggi la pietà popolare è da ritrovare nei secoli delle Crociate, fra i secoli XII e XIV, allorché combattenti e pellegrini, rientrando nelle loro terre con gli occhi e la mente ancora segnati dalla visione dei luoghi santi, ne volevano simbolicamente riprodurre il ricordo all’interno del loro spazio quotidiano. Fu così che progressivamente quasi tutte le chiese furono marcate da raffigurazioni o da croci lignee che riproponevano quelle scene, dapprima in un numero variabile (di solito sette), poi codificate nelle classiche quattordici “stazioni”.
Non c’è qui lo spazio per fermarci sulla varietà delle “stazioni”, le vicende via via scelte, i possibili o inesistenti fondamenti biblici. È importante sottolineare, comunque, che, attraverso questa pratica, i fedeli potevano ripetere nelle loro comunità l’esperienza dei palmari o palmieri, pellegrini che tornavano da Gerusalemme portando con sé la palma di Gerico come vero e proprio segno di riconoscimento, beneficiando delle stesse indulgenze via via concesse da Innocenzo XI, Innocenzo XII, Benedetto XIII e dilatate da Clemente XII; in questo modo si rinsaldava il legame con la propria chiesa parrocchiale, auspicato dalla strategia pastorale post-tridentina.
Ma risaliamo alla vera e ultima radice generativa di questa devozione che, peraltro, ha conquistato anche la storia dell’arte. C’è nella città vecchia di Gerusalemme una strada che porta ancor oggi il nome di “Via Dolorosa”. Su di essa, in una giornata primaverile di un anno fra il 30 e il 33, avanzava un piccolo corteo, guidato da un centurione romano, con l’incarico di “exactor mortis”: egli era, cioè, il responsabile dell’esecuzione capitale di un condannato di “servile supplicium” (come già lo definiva Cicerone), la pena riservata a schiavi e a rivoluzionari antiromani.
Ancora oggi i pellegrini, più o meno lungo lo stesso tracciato, avanzano reggendo in spalla una croce di legno, riproducendo e rivivendo quella vicenda. In realtà, il condannato procedeva, già stremato dalla tortura delle flagellazioni precedenti, reggendo solo il “patibulum”, ossia il braccio trasversale di quella croce il cui palo verticale era già piantato lassù, fra le pietre di un piccolo promontorio roccioso, sito fuori le mura di Gerusalemme e denominato, come si sa, in aramaico Golgota.
Era questa, per Gesù di Nazareth, l’ultima tappa di una vicenda che poi sarebbe diventata celebre nella storia dell’umanità, iniziata nell’oscurità cupa della sera precedente, sotto le fronde degli ulivi di un campo chiamato Getsemani, che si stendava a est della città santa, oltre il torrente Cedron. Una storia che si era dipanata in modo accelerato anche nei palazzi del potere religioso, il sinedrio ebraico, e politico, il pretorio romano; e tutto poi si era consumato su quel colle durante una lunga agonia.
La Via Crucis resta, comunque, il simbolo non solo di una storia passata, ma anche di un’esperienza universale di dolore e di morte, di fede e di speranza. Anche per questo, i riti di questa devozione sono così diffusi ancora oggi, una parabola, insomma, che parla a tutti, evocando la prevaricazione del potere e l’ingiustizia, l’odio e l’amore, il dolore e la speranza, la storia e la trascendenza, nella loro tragica unità.
Ma con un’avvertenza e una distinzione importanti: la meditazione inscritta nella Via Crucis è soprattutto una meditazione sul simbolo di un radicale svuotamento (la “kenosis”) e di un’insuperabile ascesa, di mortale ferita e divinità del Logos, di umiliazione e di gloria. La figura del Crocifisso non è soltanto presenza reale che si eternizza, passato che guarda al futuro e, insieme, grido dell’abbandono; è anche figura della tensione inesauribile verso quello che chiameremmo l’”Uno” che ogni luce, ogni contraddizione e tutti i nostri discorsi devono presupporre.
Se le vie che sono la Croce non “immaginano” tutto ciò, forse la grande Icona del crocifisso fallisce; allora la Via Crucis non diviene che una narrazione intorno al sacrificio di un «maestro» o di un “buono”, uno degli innumerevoli racconti intorno all’ingiustizia che produce e domina la storia. Ma con ciò non si potrebbe mai dar ragione al fatto che l’evento di quella Croce ha segnato il cuore di un’intera civiltà.