Ci sono storie che non vorresti mai raccontare: per esempio, quella della 36enne salentina Jole che, da malata di cancro operata più volte, attende da tre mesi l’esito di un esame istologico che dovrebbe invece essere rapidissimo poiché finalizzato ad individuare la terapia adeguata alla cura: i medici sono pochi il lavoro è tanto, la sanità pubblica è quella che è etc. etc. Così si legge nelle “spiegazioni”: insomma tutto l’eccetera di contorno che non giustifica nulla, facendo infuriare, angosciare ancora di più un malato di tumore che ben conosce l’importanza del fattore tempo. L’eccetera eccetera, mentre chi attende si gioca la partita della vita. E allora decide, come ha fatto Jole, di rivolgersi a un giornale, sperando che il clamore serva a salvare la pelle. Ovviamente, forza Jole.
Poi c’è la tua storia: il carcinoma al seno ha beccato pure te.
Piazzandoti tra le 55mila e settecento donne italiane che, si stima, se ne siano ammalate nel 2022. Digiti in Rete, “carcinoma alla mammella” e la tempesta che ti toglie il sonno prende la forma di numeri. Scopri che l’incidenza percentuale, tra le più giovani, diventa sempre più alta. Che quello al seno è il più diffuso tra i tumori femminili. Che al Sud, ogni anno, si contano 123 nuovi casi ogni 100mila donne.
Dinanzi all’enormità di questi numeri, travolgenti come uno tsunami, comprendi rapidamente che la domanda da porsi non è :“Perché proprio a me?” bensì “Perché non a me”. E allora cominci la tua corsa contro il cancro che è, anche, una corsa contro il tempo. Nonostante ti senta a pezzi, nonostante vorresti rimanere a piangere senza veder nessuno, parlare, agire, pensare, poiché tutto sembra perso. Chi scopre di avere un tumore, sa bene come ci si sente. Ma è la tua pelle, sei tu la malata: devi decidere cosa fare, nel minor tempo possibile e con la più grande lucidità di cui disponi.
E qui, a questo punto della storia, non puoi che fare ciò che hai sempre fatto nella vita: raccontare. Anche se, come scrive Pierluigi Battista nella sua lettera aperta sul “non chiamateci guerrieri” (che Geppi Cucciari ha trasformato in un bellissimo monologo sul cancro) lo si può fare “impudicamente e una volta sola. E poi basta”. Il racconto, per quanto mi riguarda e per quanto posso testimoniare avendolo vissuto, è quello di una sanità pubblica che funziona. Come mai mi sarei aspettata, da giornalista e da cittadina. Di più: da malata, pronta a farsi valere.
Al primo ritardo burocratico nel fissare un appuntamento urgente; al primo disservizio nell’attesa di un referto; alla prima mancanza di educazione da parte di chiunque ; al primo reparto sporco e cadente; al primo pasto immangiabile; al primo operatore sgarbato e frettoloso: avrei fatto valere ciò che il mio lavoro mi ha insegnato. Il rispetto per i miei diritti di persona e di cittadina. Non ce n’è stato bisogno, vivaddio. Al Policlinico di Bari ha funzionato tutto. E vorrei aggiungere, da giornalista abituata alla cronaca negativa : quasi inaspettatamente. Se solo non fosse che con quell’”inaspettatamente” mi parrebbe di sminuire l’impegno degli uomini e delle donne incontrati nel percorso al Policlinico di Bari: Vincenzo De Ruvo, senologo specialista in Radiodiagnostica; Alfredo Cirilli responsabile chirurgia senologica; Alda Montanaro aiuto chirurgia senologica; Mirella Maestri, anestesista; Luigia Stucci oncologia medica; Michele Piombino responsabile di Radioterapia Oncologica. E certo non vorrei sminuire l’efficienza dei loro reparti dove nessuno è mai un numero, ma una persona.
La vita insegna sempre qualcosa. Una su tutte: che gli uomini possono fare la differenza nell’evolversi di una storia. La mia personale prosegue grazie alla professionalità e alle indubbie capacità di questi medici e dei loro collaboratori . Che danno ad ogni malato la forza di non sentirsi soli dinanzi ad una malattia grave ma che si cura oggi più di ieri, grazie alla ricerca, agli oncologi che ce la mettono tutta nel fare al meglio il proprio lavoro : salvare le persone e dare altro tempo alla vita.
Proprio nei giorni scorsi l’assessore alla sanità pugliese, Rocco Palese ha lanciato l’ennesimo allarme: servono 300 medici o sarà paralisi negli ospedali. E dunque: come potrei “impudicamente e una volta sola” non raccontare la buona sanità che, al di là di un sistema ormai allo stremo, funziona e bene. Certo è un fatto personale portare per sempre con me la rassicurante professionalità di Alfredo Cirilli. La preziosa disponibilità di Alda Montanaro. La precisione e la solerzia di Michele Piombino nel dirigere un reparto, realizzato solo nel 2017, indispensabile e tenacemente voluto. O la certezza che, senza la diagnosi precoce di Silvia Viterbo eccellente radiologa barese, la mia storia avrebbe avuto uno svolgersi diverso.
Un fatto personale, certo: ma se l’averlo raccontato da giornalista “impudicamente e una volta sola. E poi basta”, potesse servire a dare forza, coraggio - e vita e tempo - a qualcuna, ne sarebbe valsa la pena.