Definire graniticamente cos’è e come si misura la qualità della vita è a mio parere difficile, se non impossibile. Tutti nel loro piccolo e all’interno della classe sociale di riferimento, o della città in cui vivono, ricercano costantemente anche solo attimi di felicità. E siccome qualità della vita e felicità sono strettamente connessi, forse non sono parametri perfettamente misurabili. Non c’è dubbio però che se prendiamo come riferimento solo criteri economici (reddito, ricchezza, consumi, servizi), la fotografia diffusa dal Sole 24 ore qualche giorno fa sulla graduatoria della qualità della vita, è una mappa importante per analizzare le nuove, o statiche, diseguaglianze sociali che affliggono l’Italia.
Il Sud, anche se alcune città salgono e altre scendono, si conferma saldamente in fondo alla classifica. Per il terzo anno consecutivo Crotone è maglia nera, ultima. Le posizioni dall’81 alla 107 sono tutte occupate da province del Mezzogiorno. Palermo, Catania, Napoli, e Reggio Calabria, ma anche tutte le città pugliesi: Bari è al 66° posto, Lecce al 78°, Brindisi al 92°, Taranto 101°, Foggia 104°.
Certo, è anche vero che città come Milano, Roma e Torino, sul podio delle migliori, perdono comunque quota rispetto al passato. La capitale per esempio scivola in basso, addirittura di ben diciotto posizioni. Insomma l’Italia in generale non se la passa bene, se consideriamo recessione e inflazione, per tutti sono numeri da record. Ma alla tempesta economica in corso c’è chi resiste, chi annaspa, chi soccombe. Aumentano tragicamente coloro che non reggono botta, vittime della diseguaglianza sociale.
E questo vale al Nord come al Sud. Il famoso ceto medio non cresce più, non si moltiplica. Non sogna il grande salto, teme anzi di diventare ultimo. Anche a causa dei lavori che svolge, mansioni sempre più sporche, faticose, ingiuste e sottopagate. Poi ci sono i 6 milioni di poveri assoluti. Esistono anche se non vogliamo vederli, se preferiamo far finta di nulla. Loro hanno smesso di sognare da tempo. Sono consapevoli di essere ultimi e che resteranno tali.
Alla vigilia delle leggi di bilancio, si scopre sempre che la coperta è corta, che non si può far tutto per tutti. Non c’è mai stata, né c’è tuttora, una strategia di inclusione degli ultimi ovunque essi vivano. Anche perché povertà e diseguaglianze non si cancellano dall’oggi al domani, servono interventi strutturali, mirati, nel lungo periodo.
Si cade, invece, costantemente nell’errore di preferire interventi spot. La stagione per esempio dei bonus a pioggia, dati a chiunque senza distinzione di reddito è stata deleteria e sbagliata (idem per il bonus 110%: era davvero necessario destinarlo anche chi ha ristrutturato le seconde case mentre periferie ed edilizia popolare è ancora in coda in attesa di vedersi montare i cantieri?).
Così come colpevole e retorica è la narrazione dei poveri sul divano che non vogliono lavorare e preferiscono i sussidi. Come se bastasse cancellarli per creare magicamente lavoro dignitoso.
C’è da tempo una colpevolizzazione della povertà che ha fatto solo danni. Ha messo gli uni contro gli altri. Attenzione, è una fotografia globale: l’urgenza di redistribuire la ricchezza concentrata nelle mani di pochi è mondiale. Non certo un primato solo italiano. Se però guardando ai fatti di casa nostra, prendiamo come parametro di giustizia sociale le leggi di bilancio, mi unisco a quegli addetti ai lavori, economisti ma anche sociologi e antropologi, che hanno definito l’ultima legge di bilancio in via di approvazione entro la fine dell’anno, iniqua e con poca visione. Squilibrata inoltre a favore non del ceto medio tutto, ma di quello più abbiente (sulla soglia degli 85 mila euro). Se aggiungiamo l’assenza di un rilancio vero e proprio anche di sanità e scuola, ecco un’ulteriore mazzata a chi vive di welfare pubblico, a chi non può permettersi servizi privati. Infine: il taglio al reddito di cittadinanza che trova d’accordo anche alcuni partiti dell’opposizione. Diciamolo, è l’unico vero intervento per fare cassa. Che c’erano correttivi urgenti da introdurre questo lo dicevano da tempo anche gli addetti ai lavori, come per esempio la professoressa Chiara Saraceno che ha sempre chiesto tra i correttivi da attuare la rimozione dello squilibrio tra l’assegno riconosciuto al singolo e quello ai nuclei familiari con minori per esempio. Né questa né nessuna delle altre proposte di modifica avanzate è stata presa in considerazione.
Si è preferito l’intervento punitivo del taglio della durata dell’assegno. Colpisce ancora una volta il tenore del dibattito politico e giornalistico sulla materia. I poveri non vogliono lavorare, le imprese non trovano manovalanza, i giovani sono degli scansafatiche. E di qualunquismo in qualunquismo eccoci arrivati alla fine del 2022, alla soglia del 2023. Alla famigerata graduatoria della qualità della vita. I poveri puzzano e, così rappresentati, diventano un problema anche per il ceto medio. Meglio nasconderli come la polvere sotto il tappeto, far finta che sia loro la colpa di essere nel fango. Al Sud come al Nord. L’impoverimento generale, l’aumento delle diseguaglianze sociali, l’infelicità diffusa, sono forse gli unici criteri che hanno unificato l’Italia.