Chi fosse andato a messa domenica scorsa si sarà imbattuto in una preghiera dei fedeli fuori dall’ordinaria scansione delle invocazioni che il foglietto domenicale riporta per seguire il rito. Nel passaggio in cui i fedeli rivolgono a Dio la preghiera di illuminare i governanti - richiesta reiterata ogni domenica, e sempre in attesa di ascolto - c’era un sorprendente inciso totalmente innestato nel mondo concreto, umano, tanto umano, senza toccare la sfera dell’ultraterreno, che, del resto, è fuori dalla giurisdizione della politica. A un certo punto, dopo aver fatto riferimento alla luce evangelica chiamata ad illuminare i potenti, si legge: «Perché nessuno sia mortificato nell’esercizio dei suoi diritti e nella ricerca della felicità».
L’espressione «diritto alla ricerca della felicità» è esattamente la stessa famosissima che incontriamo nel preambolo della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, firmata da Jefferson nel 1776, dopo la supervisione dell’illuminista napoletano Gaetano Filangieri, che propose la sostituzione di una originaria espressione, «diritto di proprietà», con quella, appunto, che fa riferimento al perseguimento della Felicità. Diritto inalienabile insieme alla Vita, e alla Libertà.
Nel preambolo, giustamente, sono tre parole scritte con l’iniziale maiuscola. Per la verità Jefferson non rimase solo nella proclamazione del fondamentale diritto, così caro agli «eudemonisti» greci : gli facevano eco le costituzioni della Rivoluzione Francese che fece da lievito alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dove il riferimento è esplicito. Si legge all’ articolo 1: «Lo scopo della società è la felicità comune. Il Governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili». Più chiaro di così. Ma il costituzionalismo ottocentesco lasciò qualcosa anche da noi in Italia: lo Statuto Albertino evocava la «Nazione felice». Nella nostra Costituzione repubblicana, però, non c’è più traccia. Il costituzionalista spiegherà che non può esistere una definizione «univoca» della felicità, ma che, a ben vedere, sarà possibile una ricostruzione del diritto attraverso l’intero catalogo dei principi fondamentali, a partire dall’art.3. In particolare sarà proprio il diritto al lavoro richiamato dal primo articolo a raccontare meglio un principio che ha a che fare con la dignità, l’autonomia economica e l’indipendenza. Tutto vero, per carità.
Ma ci siamo abituati per decenni, nella lunga stagione dell’egemonia culturale dei due grandi partiti di massa, la Dc e il PCI, ad allontanare dal «mondano» il concetto della felicità, per collocarlo altrove. Nel Paradiso dei Cristiani, o in quello della società comunista, di là da venire. Comunque lontano da qui e ora. La lunga stagione «quaresimale» delle ideologie forti ha costruito una concezione della felicità intesa esclusivamente come valore «collettivo», di eliminazione del pauperismo, della miseria, delle diseguaglianze. Morte le ideologie, acquisita la Risoluzione dell’ONU che istituì nel 2012 «La giornata della Felicità» ( per chi si voglia preparare a dovere per celebrarla, cade il 20 marzo), torna ad essere attuale il tema della felicità come fine ultimo della politica. E se nella lettura cristiana la rifrazione della felicità ultraterrena in terra c’è già nell’azione politica nella Storia (la città dell’uomo di Agostino), il comunismo non c’è più, e dunque qualcosa la possiamo fare per essere felici adesso. A ben vedere altro non dovrebbe fare che questo la politica: lavorare per il ben-essere dei cittadini.
Forse il principio andrebbe messo addirittura in Costituzione. Basterebbe, però, che i governi se ne facessero carico con azioni concrete, cominciando dal lavoro di eliminazione di tutto ciò che fa infelicità: lo stupro del territorio dove viviamo, l’iniqua distribuzione della ricchezza, la disoccupazione, l’imbruttimento del nostro habitat-anche la bellezza è parte del diritto alla felicità, la mancanza dell’integrità morale, l’incultura nell’esercizio delle funzioni pubbliche, perché anche la mancanza di competenza è un delitto contro la felicità collettiva. Dunque il diritto alla ricerca della felicità può, nella stagione post-ideologica, cominciare ad essere la missione della politica. A questo punto, però, è lecita la domanda: ma noi lo sappiamo davvero qual è la strada della felicità? O siamo troppo ottundati da tanta roba inutile, tanti bisogni indotti, tanta mancanza di autonomia nella scelta da smarrire l’autentico? Forse, oltre alla preghiera per l’illuminazione dei governanti ne occorre una anche per i governati.