Con le sue sperticate lodi a Mikhail Gorbaciov, Silvio Berlusconi ha posto una pietra tombale su quanto restava della sua amicizia con Vladimir Putin. Ammesso che l’ufficio stampa del Cremlino abbia incluso il Cavaliere nella rassegna dei laudatores occidentali per colui che Mad Vlad considera l’autore della «più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Così, infatti, Putin definì nel 2005 lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Gerarchia dei fatti molto inopportuna per un Novecento particolarmente generoso di catastrofi belliche ed umane.
In Occidente era la sera di Natale del 1991, quando Gorbaciov parlò per 11 minuti e 22 secondi alla televisione di Stato. Poco dopo, Valentin Kuzmin e Vladimir Arkhipikin, addetti al cerimoniale, ammainarono la bandiera rossa con falce, martello e stella dell’Unione Sovietica dal più alto pennone del Cremlino sostituendola con la bandiera russa.
Per Vladimir Putin un secondo colpo tanto terribile quanto temuto. Il primo lo aveva accusato nel suo ufficio, nella «rezidentura» del Kgb a Dresda al numero 4 di Angelikastrasse, la sera del 9 novembre 1989, quando era crollato il Muro di Berlino. Quella notte Gorbaciov fece varie telefonate. Una ad Helmut Kohl e una a Willy Brandt, assicurando che i 400mila militari russi di stanza nella DDR (la Germania dell’Est, comunista, appartenente al blocco sovietico e al Patto di Varsavia - n.d.r.) sarebbero rimasti nelle caserme. Infatti, nessuno accese i motori degli oltre 4mila carri armati sovietici che presidiavano la Germania Est. Decisione non del tutto scontata, considerando l’entourage che lo circondava.
Ma facciamo un passo indietro. L’Urss che Gorbaciov eredita da Cernenko è stremata dalla guerra in Afghanistan, da spese militari insostenibili e, in buona sostanza, da un modello politico che è arrivato al capolinea. Che la soluzione sia una perestroika governata dalla glasnost è quanto di più velleitario si possa immaginare.
A remare contro di lui, il primo ministro Valentin Pavlov, il vicepresidente Gennadij Janaev, il capo del Kgb Vladimir Krjuckov, il ministro degli interni Boris Pugo e quello della difesa Dmitrij Jazov, tutti alla testa del fallito golpe del 18 agosto 1991 che porta sulla scena Boris Eltsin.
Pochi giorni dopo, il 24 agosto, l’Ucraina proclama l’indipendenza.
Una leggenda racconta che a Gorbaciov l’ispirazione della perestroika venne nel 1984, in una notte mentre chiacchierava con il suo amico Eduard Shevardnadze, in una dacia in Abkhazia, sul Mar Nero. Forse la spinta venne da una bottiglia di vodka. Al tempo è solo Secondo Segretario del Pcus. A Mosca regna incontrastato Cernenko. Gorbaciov avrebbe scandito a Shevardnadze: «È tutto marcio. Dalle radici alla punta».
Capire la natura del conto che decenni di Unione Sovietica lasciano a Mikhail Gorbaciov è importante per riflettere sull’oggi. «Overstretching» sarebbe il termine giusto: sovraestensione politica, militare ed economica. Il sostegno russo al Comecon e al Patto di Varsavia non era più sostenibile. Gorbaciov ha cercato un’alternativa impossibile nelle condizioni date all’inizio degli Anni Novanta.
Ovviamente «parce sepulto», onore ad una delle figure più tragiche del Novecento ma anche una riflessione sull’ossessione dell’«overstretching» che, ancora una volta, assedia un Paese la cui unica forza è l’esportazione di quanto Madre Natura gli ha destinato e un’atomica che sarebbe un «game over» per tutti. Nessuno escluso.
Si dice che Putin sia un cultore della storia russa. E della storia fanno parte anche le mitologie e da queste originano gli esiti più devastanti. Su aspirazioni territoriali caddero i Romanov e sullo stesso terreno cadde l’Unione Sovietica. A leggerla bene la storia può essere anche una via che porta alla pace.