Tra i tanti «testamenti» di Carmelo Bene ne scelgo uno (non) a caso. E mi perdonerete se lo faccio ricordando il giorno della sua nascita, 85 anni fa, il 1° settembre 1937. Un paradosso sì, ma gli estremi coesistevano in lui come le tenebre e la luce nella Creazione.
Non sfoglierò le centinaia di pagine dedicategli da filosofi come Gilles Deleuze a proposito del suo teatro, pardon, della sua scrittura di scena; a proposito della sua recitazione (ripardon, macchina attoriale).
Non ricaverò la citazione più appropriata e ruffiana; né consulterò le pagine delle sue «Opere» edite da Bompiani nel 1995 o la «Vita di Carmelo Bene» scritta con Giancarlo Dotto (1998), dove splende l’impareggiabile definizione del suo Salento: «Sud del Sud dei Santi».
Rifiuto di appuntar parole sulla blusa del giornalista, per tener viva la memoria con quel po’ di bastevole retorica consolatoria. Preferisco la sottrazione (e l’estinzione) di ricordi stretti e ripidi, di scorciatoie quasi nascoste, quasi dimenticate, di vuoti come quelli cercati e trovati con sapienza dagli scalpellini, lavorando il tufo.
Del resto, Bene era così: sottraeva miracolosamente se stesso dentro Shakespeare e Stevenson, Majakovskij ed Esenin, Collodi, Marlowe, Leopardi, Wilde, Laforgue. La sera in cui lesse la “Divina Commedia” di Dante dalla Torre degli Asinelli di Bologna, nel 1981, a un anno dall’attentato alla stazione, lo fece «da ferito a morte», dedicando l'esibizione «non ai morti, ma ai feriti dell’orrenda strage». Perché la sua voce si mescolasse alla loro, concependo e generando la memoria dei sommersi e dei salvati, senza retorica alcuna. A 97 metri di altezza, 97 metri di vuoto.
Voce e memoria. Perché Bene bisognerebbe ricordarlo non parlando, non scrivendo, ma cantando. Come facevano le tabacchine di Campi Salentina. Le loro antiche melodie stregarono il bambino che si aggirava nello stanzone dove lavoravano le foglie. Lì scoprì lo splendore della phoné tra secchi fruscii e storie intonate d’amore tradito e sfruttamento. Voce e memoria. Voce, suono, rumore: «Tutta la storia è storia della phoné» dirà in seguito. Del resto, in principio era il Verbo. Certamente non scritto.
Ho divagato e torno al (quasi) «testamento». Sulfureo, meridiano - Bene scompare nel 2002, pochi anni dopo quell’apparizione -; a futura memoria. È l’estate del 1994, l’estate dei Mondiali di calcio negli Stati Uniti - «Il calcio è stupendamente rappresentato dalla nostra nazionale, si vedono 11 ragionieri in mutande allo sbaraglio senza nessuna remora, senza nessun decoro. È il nostro governo, il nostro sottogoverno in mutande» dichiara Carmelo Bene all’”Unità”. Maurizio Costanzo organizza una puntata del suo Show televisivo sotto forma di sfida, «Uno contro tutti». Lo chiama sul palco a misurarsi con giornalisti, critici, attori, personaggi dello spettacolo. Risultato: una trasmissione irripetibile, nella quale medianicamente, prima ancora che mediaticamente, Carmelo Bene «profetizza» di tutto. Dall’orrido della politica: «Gli italiani continuano ancora ad andare sempre a votare, votano, votano; non si capisce perché votino. Per dare un senso a che cosa?» a quello del politicamente corretto: «Non me ne fotte nulla del Rwanda e lo dico. Voi no. Non ve ne fotte; ma non lo dite». Passando per la libertà di stampa che dovrebbe essere «libertà dalla stampa», quella che «informa non sui fatti, ma informa i fatti». E talvolta li deforma.
Il vuoto per il quale Bene lottò in vita, soffrendo i pugnali affilati della critica, come il suo amico e mentore teatrale Albert Camus, quel vuoto geniale di cui il Paese rimase orfano prematuramente (e gli effetti si son visti tutti), lo rese sempre più simile al Franz Kafka raccontato nella celebre biografia da Pietro Citati: disposto a svuotarsi, a ignorarsi e ignorare, a vedere nel male «il cielo stellato del bene» secondo un oscuro e celebre aforisma dello scrittore ceco. Il male lucente, il male del conformismo sulla scena; la corruzione operata sul suono dalla parola scritta. Il bene, anzi il Bene, era da tutt’altra parte: nel vuoto silenzioso (presagio della Creazione).
Sotto quel cielo stellato kafkiano, solo lui, nell'ora amara delle offese, poteva riconoscere l'angelo accorato di Blok, da una lontananza irrevocabile. Solo lui, sotto quel cielo, poteva «delirare in Otranto l’infinito del mar ionico» come la colomba sulle acque del diluvio. Solo lui. E senza di lui, quel diluvio ci ha travolto.