L'Università italiana è nell’occhio del ciclone. E questo non soltanto per ragioni giudiziarie, con i tanti (troppi) scandali che hanno investito vari atenei e un profluvio di concorsi per l’accesso alla docenza – a quanto pare pilotati con logiche baronali – nell’ultimo biennio. Da questo punto di vista nulla di nuovo – se non nei numeri – sotto il sole: una violazione delle regole e del merito, cui si vuole porre rimedio con l’ennesima (e probabilmente inutile) riforma della normativa concorsuale. Non basta un restyling delle regole d’accesso per sovvertire una mentalità che fa di una malintesa cooptazione – ben salda nel codice genetico del mondo accademico nostrano – lo strumento d’esercizio di un arbitrario potere personale.
È un altro tema, tuttavia, a tenere banco dopo la diffusione dei risultati degli scritti del concorso in magistratura e le dichiarazioni rilasciate da alcuni commissari sullo scarso livello dei candidati: l’attitudine del corso universitario in Giurisprudenza a formare i futuri magistrati. In particolare, a insegnar loro a scrivere di diritto, essendo i corsi strutturati in chiave essenzialmente – se non esclusivamente – orale. Tutta colpa dell’Università, dunque, se i numerosi candidati che non hanno superato lo scoglio delle prove scritte (non) saranno magistrati. Ma è davvero così? La conclusione è semplice – e semplicistica – e sicuramente idonea a fornire un facile capro espiatorio: è la laurea magistrale in Giurisprudenza a costituire il presupposto principale per accedere agli ambiti ruoli della magistratura e, quindi, carenze e défaillance degli aspiranti togati non possono che addebitarsi ai contenuti somministrati all’ombra di Minerva. Ma si tratta di una deduzione scontata e fuorviante.
Intanto, occorre sgombrare il campo da alcune letture non storicizzate. Che vi sia una forte selezione alle prove scritte del concorso in magistratura è dato noto e consolidato, solitamente interpretato come espressione del suo rigore e giustificato dalla delicatezza del ruolo che i vincitori andranno a ricoprire. La cosa non ha mai suscitato particolari allarmi o polemiche all around the world, anzi. Non a caso il concorso in magistratura è sempre stato considerato uno dei pochi concorsi pubblici «seri». Che vengano ammessi agli orali un numero di candidati inferiore a quello dei posti messi a concorso è, parimenti, un dato tutt’altro che eccezionale, indice di quel rigore delle commissioni di cui si è detto. Che poi ciò sia fonte di conseguenze negative per la copertura dei posti vacanti (attualmente ben 1300) è altro discorso, che meriterebbe un approfondimento a parte. Stupisce, pertanto, lo stupore con cui la notizia è stata data anche da importanti quotidiani nazionali.
Ciò detto, i rilievi formulati per gli errori di grammatica e di sintassi, oltre a quelli di diritto, non possono lasciare indifferenti ma richiedono una spiegazione più articolata se si vuole evitare di alimentare soltanto riforme improvvisate destinate a non sortire alcun effetto. Intanto, se parliamo di errori nell’uso della lingua italiana – e ce ne sono in quantità affatto trascurabile, chi è stato membro della commissione di abilitazione all’esercizio della professione forense lo sa bene, al pari di chi si occupa della correzione delle tesi di laurea – tali lacune evidentemente non possono che essere risalenti ai primi passi della formazione ed è davvero difficile (per non dire impossibile) colmarle «da grandi», impegnando gli studenti a redigere dieci, cento o mille pareri e atti giuridici. Questi ultimi potranno servire a potenziare le capacità argomentative in materia giuridica di ciascuno, sempre però che abbia imparato in precedenza ad argomentare sottraendosi al giogo della comunicazione odierna – di cui troppo spesso ci si dimentica, quasi si tratti di compartimenti stagni – nella quale per molti già comporta fatica raggiungere il numero di battute massimo di un tweet («infaustamente» passato da 140 a 280), ritenute appannaggio di un inessenziale linguaggio complesso. E risulta sicuramente più agevole aggiungere un lapidario like.
Il villaggio globale digitale, tra le tante novità, ha portato anche la disaffezione dallo scrivere in una dimensione che superi quella telegrafica e «stenografata». La velocità, del resto, è un suo must. E il mondo della formazione, con il proliferare delle tecniche didattiche «innovative» a scapito di quelle tradizionali, non è certo strutturato per favorire l’apprendimento della scrittura (a partire da quella manuale). Se questo è, perché sorprendersi delle carenze nella scrittura, giuridica e no?