Sergio Staino, col suo Bobo, ha letto il Novecento, il PCI, l’Italia contemporanea, cercando di liberarla da «oscurantismi» di ogni tipo. Era appunto una voce libera, una boccata d’aria per un giornalismo spesso pieno di omuncoli di basso profilo. Non si può ricordare il grande vignettista, scomparso ieri, con toni da coccodrillo, perché Staino era tutt’altro: sferzante, ironico, brioso e malinconico, proprio come le sue vignette, proprio come tutti i suoi lavori per Linus e come la rivista, da lui fondata, Tango.
Il mio ricordo personale inizia dalla fine, dai più recenti anni in cui era diventato direttore de L’Unità, nei tempi renziani, da cui poi era rimasto profondamente deluso… Anzi, per meglio dire, tradito. Poter lavorare con Sergio Staino, anche se per un tempo breve, voleva dire riuscire a mettere al centro di un quotidiano dei temi che, nel resto della stampa nazionale, restavano a margine. Furono quelli gli anni in cui volle dedicare una seria attenzione al grande intellettuale Predrag Matvejevic, ritenendolo il primo vero autore che aveva saputo leggere i Balcani, il Mediterraneo, l’Europa. Non solo. Innamorato e attento alla filosofia, ideò una pagina dedicata all’origine del paradosso, dando spazio a un cosiddetto «museo del paradosso», che stava per decollare, proprio in quel momento, nella terra di Parmenide e Zenone, nel sud dell’Italia, nel cuore del Cilento.
Il paradosso è, appunto, il termine chiave per parlare di Staino e della sua arte. Ricordo quando volle affidarmi un’intervista al noto psicanalista Massimo Recalcati, per indagare quell’Italia affascinata dal movimentismo pentastellato, che, da un lato diceva di combattere la generazione dei padri, dall’altro, a piene mani, si impastava, contraddicendosi palesemente, di quella politica aspramente criticata da Beppe Grillo nelle piazze. Nelle sue newsletter più recenti, nelle sue vignette, aveva anche voluto mettere in risalto un’altra contraddizione paradossale (e preoccupante) della nostra democrazia: l’erosione dei diritti sociali, fin troppo snaturati.
A chi pensava, Sergio? Spesso, in tal senso, si riferiva agli omosessuali, alle famiglie meno tradizionali (mettendo sempre un po’ alla berlina l’aggettivo «tradizionale», di cui amava dire: «tradizionale per quale epoca?»). In una delle sue email ufficiali, indirizzate a lettori, colleghi e amici, aveva posto una questione interessante e delicata: come si può pensare, in democrazia, di contrapporre i diritti dei singoli ai diritti collettivi?
Nel suo «tango con Aristotele», se così possiamo definirlo, aveva saputo e voluto ricordare all’Italia, un po’ pop e un po’ bigotta, che l’uomo è un centauro fatto di persona morale e sociale, richiamandosi tanto al mondo greco quanto alla raccolta Les constitutions de l’Europe nouvelle, del 1928, a cura di Mirkine Gutzevich. Quante letture e quanta cultura emergevano dalle sue parole! E quanta attenzione alla storia! Alla scomparsa di Macaluso, per esempio, suggerì un pezzo, poi pubblicato, dove accostare il metodo Sciascia a quello di Macaluso, nel nome di alcuni scritti editi da Feltrinelli. Era quello il suo modo per raccontare ai più giovani il PCI. Fu così che nacque un pezzo dedicato al Macaluso giornalista e intellettuale, ma anche lettore di Sciascia. Disse: «Come scrisse Leonardo stesso, Macaluso non fu né comunista né anticomunista, ma stimò e disistimò il Pci, con cui condivise battaglie significative». Era questo quello che lui definiva il politichese tanto di Sciascia quanto di Macaluso stesso, a cui voleva far riferimento e di cui amava raccontare in maniera «sentimentale» (aggettivo che riecheggia un suo scritto ben noto). Non solo questo, ovviamente, ma la doppia linea interpretativa, a cui richiamarsi, era di certo curiosa, interessante e innovativa, capace - anche se non totalmente condivisibile - di contraddire quella dualità che Pansa aveva voluto leggere, criticamente, in quei tempi del Partito Comunista (basti pensare al testo Sciascia contro Sciascia, scritto su Repubblica).
In questo ricordo, un po’ personale e un po’ anticonvenzionale, vogliamo menzionare anche la sua straordinaria capacità di raccontare e scrivere di aneddoti, di cui si conoscono poco le fonti, sempre un po’ a metà fra creatività, letture e amore per la storia. Della Russia amava citare Velikovsky e del mondo (anche metaforicamente) in collisione, scritto negli anni Cinquanta: un curioso testo, in cui si ripercorreva la storia del mondo, sfidando dogmi della scienza contemporanea anche alla luce dell’archeologia, dei miti della psicanalisi e della geologia. Non solo. Citava spesso, anche Il diavolo e il buon dio di Sartre come buon manuale per rifuggire da assolutismi pericolosi, tanto nel bene quanto nel male. Era questo il suo mondo di ballare il tango, fra storia e attualità.