Portata alla ribalta dalle cronache degli ultimi giorni, l’Anarchia esce improvvisamente dal cono d’ombra e «sbatte» contro una contemporaneità che pare averla dimenticata. Idee, vicende, battaglie, violenze che sfumano nella storia. Ma il movimento anarchico ha vissuto la propria stagione d’oro, anche in Puglia, tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, come ricorda Vito Antonio Leuzzi, storico, saggista e direttore dell’Istituto pugliese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia contemporanea.
Professor Leuzzi, da dove cominciamo?
«Da Carlo Cafiero, sicuramente una delle figure più significative del movimento anarchico. Barlettano, figlio di un barone e ricco proprietario terriero, è noto per aver prodotto un Compendio del Capitale che ebbe molto successo, attirando perfino il consenso dello stesso Marx».
Qual era il panorama sociale che offriva l’Italia al tempo dell’impegno di Cafiero?
«Era l’Italia post-unitaria di fine Ottocento, un Paese che si relazionava con uno Stato nuovo che però ignorava i bisogni dei più poveri. Ed è da qui che il movimento anarchico muoveva la sua battaglia».
Le idee fondamentali quali erano?
«La ferma opposizione allo Stato burocratico. L’abolizione di ogni privilegio, della proprietà privata e poi di ogni visione gerarchica. Nella convinzione che lo spontaneismo fosse la chiave della rivoluzione sociale. L’esperienza della Comune di Parigi del 1871 era il riferimento principale».
Fu questa la visione che Cafiero sposò?
«Sì, ma non fu una semplice adesione teorica. Cafiero si legò a Michail Bakunin, la personalità più rilevante sulla scena dell’Anarchia internazionale. E mise il proprio patrimonio fondiario, ingente, a disposizione della causa con conseguenze disastrose dal punto di vista finanziario».
Certo una scelta sorprendente per il figlio di un barone...
«Non fu l’unico. Anche un altro anarchico di peso, Giuseppe Fanelli, nato a Napoli ma originario di Martina Franca, apparteneva a una famiglia d’elites».
Ma perché? Qual era la ragione che portava i figli dell’aristocrazia a sposare la causa anarchica?
«Il clima culturale dell’epoca. Sono gli anni della Prima Internazionale, della delusione per l’esito dei moti risorgimentali, per l’emarginazione creata dal nuovo Strato. Senza dimenticare il fermento mazziniano: molti anarchici è da lì che venivano».
Quanto peso aveva, in tutto questo, la questione meridionale?
«Aveva il suo peso, naturalmente. Ma non era solo l’Italia del Sud ad avanzare rivendicazioni sociali. Anche alcune aree del Nord erano in prima linea. Lo dimostra l’attivismo di un altro grande nome dell’anarchismo, Andrea Costa, imolese, protagonista dei moti insurrezionali del 1877 contro la tassa sul macinato».
Cafiero fu al centro di una iniziativa analoga nel Mezzogiorno?
«Sì, i moti del Matese, tra Molise e Campania, nel 1877. Cafiero, insieme a Errico Malatesta, fu tra i principali animatori di quella iniziativa che, però, si rivelò totalmente fallimentare. Un colpo durissimo».
Cosa ne seguì?
«Seguirono lunghissimi processi e tanti anni di carcere. Ecco, uno dei tratti distintivi, se così si può dire, del movimento anarchico è di aver sempre subito repressioni ferocissime. Il confino era frequentissimo per gli anarchici anche prima del fascismo: in tanti furono deportati alle Tremiti alla fine dell’Ottocento. Un tarantino, Arturo Messinese, trascorse tutto il Ventennio tra carcere e confino, anche perché rifiutava di esibire il saluto romano».
Dopo quella «sconfitta» cosa ne fu di Cafiero?
«Iniziò un declino che presto precipitò in tragedia. La gestione dissennata del patrimonio finanziario fu alla base di forti dissapori con Bakunin, cui si aggiunsero la malattia, cioè la tubercolosi, e la progressiva perdita di lucidità. Passava da un manicomio all’altro. Addirittura fu sepolto con gli “abiti del pazzo”. Ma di lui, ripeto, resta quel Compendio arrivato fino a noi come testo di assoluto valore».
E del movimento anarchico cosa resta? Perché non ha superato il «guado» della storia con la stessa forza di altre realtà politiche?
«Il movimento anarchico fu fagocitato dal Partito Socialista. Lo spartiacque è il passaggio al socialismo proprio di Andrea Costa. Una “conversione” che ebbe esiti pesantissimi. Cafiero non lo seguì, ma tanti altri lo fecero».
Cosa aveva il Partito socialista di così seduttivo?
«Dal mio punto di vista, il nodo è la capacità di organizzazione. Un aspetto, quest’ultimo, a cui il movimento anarchico si era sempre opposto, predicando, come detto, un fortissimo spontaneismo. Ma alla lunga quel punto identitario si rivelò una debolezza. Molti anarchici scelsero un altro percorso, meno libertario, più definito. Anche le organizzazioni sindacali, da questo punto di vista, giocarono un ruolo non indifferente offrendo ulteriori sponde».
E nel Novecento? Si registra qualche acuto?
«La Guerra civile spagnola del 1936. Anche il quel caso sugli anarchici, a conflitto finito, si abbatté una repressione particolarmente feroce. È un filo rosso che, con pesi diversi e per diverse ragioni arriva dall’Ottocento fino a Cospito».