Un secolo fa, tornato col trenino della Sud Est dal liceo di Martina ad Alberobello, anziché andare dritto a casa, per una ragione che non ricordo, allungo passando da piazza del Popolo. Proprio accanto al monumento ai caduti, vedo un drappello di persone che si dirige con passo marziale verso il palazzo del conte. Accanto al sindaco, che nel mio ricordo è il prof Napoleone Bimbo – ma forse anche no, a richiedere la sua presenza deve essere l’unico nome municipale all’altezza dell’evento - c’è una donna vaporosa, ma sicura e decisa come un generale nel capeggiare il minuscolo drappello. Silenziosa. Tutti tacciono. Non vola una mosca. Io m’accodo furtivamente all’ultimo dignitario, quatto quatto scalo qualche posizione e quando giungo alla testa del drappello m’accordo che quella donna non è una donna, o almeno, non una di quelle di cui ho consuetudine nel mio paesello in quegli anni più sonnacchioso che mai – siamo nei primi anni ’70. No, quella presenza è un puro concentrato di sostanza astrale. È Gina Lollobrigida. Bum! È come un asteroide che ti piomba addosso nel tinello di casa. Da restarci tramortito. E fosse solo quello! No. Oltre al mito che si palesa da un altro universo – all’epoca le distanze erano tutte al loro posto: incolmabili, e l’altrove era davvero l’altrove non come adesso che l’universo ce l’hai in tasca nel cellulare -, vi è un altro motivo di turbamento.
La Diva con me al seguito sta entrando niente meno che nel palazzo dei conti di Alberobello – che poi sono di Conversano, ma lasciamo perdere. All’epoca non avevo ancora letto Proust, ma col senno di poi posso dire che, con tutti i distinguo del caso, io stavo a Marcel come la contessa Acquaviva stava alla duchessa di Guermantes. La dimora per me inaccessibile della contessa, mai intravista prima neanche da lontano, all’improvviso si dischiude e mi ammette ai segreti di una vita di cui dubito perfino della reale esistenza. Sono devastato. Nel momento in cui avrei dovuto essere più lucido per carpire quanti più elementi possibile di quel mondo ultraterreno, sono praticamente cieco. Avverto sì attorno a me quegli arredi che nella mia fantasia di ginnasiale svagato devono per forza impreziosire le dimore dei nobili – mobili antichi, ritratti di antenati alle pareti, persino qualche armatura – ma non metto a fuoco nulla. Sono concentrato nel seguire il piccolo corteo, badando di non essere troppo presente per non tradire la mia natura di imbucato.
Ricordo solo che camminiamo e camminiamo, saliamo scale su scale e all’improvviso eccoci sulla terrazza del palazzo, lo straordinario palcoscenico spalancato sui trulli dove la leggenda vuole che il Guercio di Puglia, un antenato cattivo della contessa, si divertisse a perforare con le frecce gli otri delle donne accorse ad attingere l’acqua alla foggia sottostante. Da lassù il borgo antico con i suoi trulli è uno spettacolo impagabile, e finalmente si spiega l’arcano della Diva tra noi. Gina Lollobrigida sta preparando un libro di fotografie sull’Italia e ha fatto tappa ad Alberobello per immortalare a modo suo i trulli. Inizio a uscire dal mio trambusto interiore e tocco terra quando scopro che un assistente della Diva passa alla sua principale una serie di macchine fotografiche il cui costo equivale ognuna grosso modo allo stipendio mensile di mio padre operaio dell’Italsider. Un bagno di realtà che mi dà agio di concentrarmi sul panorama che si gode da lassù, tanto quando mai mi capiterà più di tornare qui – e difatti mai più successo – e di mettere a fuoco Gina Lollobrigida da raccontare più tardi a mio padre. Sì, lei è proprio come deve essere una Diva, non ci sono dubbi, ma se cerco di spiegarmi come non trovo nemmeno una parola. Anche perché qualcuno s’accorge della mia presenza, devo sloggiare. Percorro a ritroso il tragitto che mi ha portato ad altezze mai neppure vagheggiate, cercando di trattenere più che posso il volto della Diva e di fare incetta di particolari della dimora secolare, ma è tutto inutile. Torno per strada e Gina Lollobrigida è già una Diva senza corpo e il palazzo un avamposto della fantasia – un palazzo che mi dicono adesso desolatamente vuoto.