Oggi taglio con il sorriso il chilometro 82 della mia vita, ricca di soddisfazioni familiari, professionali, politiche e calcistiche. Per una curiosa coincidenza, in questi giorni di celebrazioni per i quarant’anni del Mondiale vinto dall’Italia, 82 è anche un numero che mi riporta a quell’estate indimenticabile vissuta in Spagna.
Ero da poco diventato presidente della Lega calcio e partii al seguito della Nazionale con la carica di vicepresidente federale.
Al debutto in un ambiente nuovo per me, fui subito colpito dallo strano clima che si respirava attorno alla squadra, in ritiro a Pontevedra, in Galizia. La stampa e i tifosi avevano aspramente criticato il c.t. Bearzot che aveva convocato Paolo Rossi, reduce da due anni di squalifica.
La squadra era sempre più isolata e persino il presidente federale, Federico Sordillo, per andare a salutare i giocatori doveva chiedere il permesso al capodelegazione Carlo De Gaudio, che essendo napoletano come lui spesso glielo negava in dialetto. «No, Federico, statti bbuono, Bearzot sta arrabbiato con tutti, nun vvenì».
Mi sembrava incredibile, ma soprattutto ingiusto, che il presidente dovesse dipendere da altri per andare nell’albergo della Nazionale. Ero il dirigente più giovane della compagnia e mi sentivo spaesato. Abituato a dire sempre quello che pensavo, sbottai dopo il secondo pareggio contro il Perù, che alimentò nuove e più violenti critiche alla squadra.
Paolo Carbone, radiocronista della redazione barese della Rai che conoscevo bene, mi chiese che cosa avrei fatto se quelli fossero stati i miei giocatori e io risposi: «Sordillo è stato fin troppo signore. Io al suo posto non sarei sceso negli spogliatoi, perché altrimenti li avrei presi tutti a calci nel sedere». Come al solito io mi ero esposto. Sordillo, profondamente irritato, mi confessò poi che non aveva più alcuna voglia di incontrare la squadra.
Io avevo usato parole forti e a quel punto persi la simpatia dei calciatori, se non proprio il loro rispetto perché rimanevo pur sempre il presidente della Lega. Per questo dopo il trionfo a Madrid rimasi in disparte, per non dare l’impressione di voler salire a tutti i costi sul carro dei vincitori, anche se festeggiai con gli altri dirigenti quel successo in cui all’inizio non credeva nessuno. Persino in quella sera di festa, però, mi colpì la distanza che separava la squadra da Sordillo, perché quando il presidente raggiunse i calciatori in albergo, scoprì che avevano già cenato senza aspettarlo. Una mancanza di rispetto nei confronti delle istituzioni, prima ancora che dell’uomo, del tutto inaccettabile per uno come me che ha sempre preteso il rispetto dei ruoli, chiarendo qualsiasi malinteso. Per questo, pur riconoscendo di essere stato duro con quella mia uscita, sono felice di avere stabilito nel tempo un ottimo rapporto con quei giocatori.
Tardelli, per esempio, mi ha ripetuto spesso che allora lui e gli altri non mi conoscevano, ma poi quando hanno capito com’ero davvero è nato un bel rapporto con tutti. E così, in questi giorni in cui si ricorda quella magnifica impresa, il mio primo pensiero va a Paolo Rossi che il 5 luglio 1982, con la sua tripletta al Brasile, mi fece un regalo indimenticabile per il mio compleanno del giorno prima. E proprio Pablito, con quel sorriso che non dimenticherò mai, ha dimostrato a tutti che si può vincere senza arrabbiarsi. Purtroppo, però, è volato via anche lui come questi quarant’anni, perché se chiudo gli occhi mi sembra di essere ancora nell’82. E invece, appena li riapro, mi accorgo che oggi devo festeggiare un altro 82….
















