«Qualcuno ha fatto strike. Ma non ha vinto nulla. Abbiamo solo perso, tutti». Così scrive Maraya Lorusso, 23 anni, sorella maggiore di Sofia, la sedicenne falciata e uccisa a Bari nella notte tra il 26 e il 27 maggio, in un incidente su via Tatarella mentre era alla guida di una minicar.
«La nostra famiglia è stata distrutta per sempre», scrive Maraya. Non usa mezzi termini, non cerca consolazioni. Solo verità. Solo giustizia. E risponde, senza girarci intorno, a chi sui social si è precipitato a giudicare, come avvoltoi: “Perché ogni volta che muore una ragazza la colpa è sua? Dei genitori? Dell’auto che guidava?”. Come se un’utilitaria leggera potesse giustificare una corsa folle, come se l’omicidio avesse bisogno di attenuanti.
Sofia non correva. La sua minicar non superava i 40 km orari. Stava sulla sua corsia. A scambiare una strada urbana per un autodromo è stato qualcun altro. Qualcuno che ha trasformato una notte qualsiasi in una tragedia irreversibile. «Qualcuno ha fatto strike», scrive Maraya. «Ma non ha vinto niente. Abbiamo solo perso. Tutti.»
Nel lungo post, c’è spazio anche per chi punta il dito contro i genitori. Maraya li difende a spada tratta: presenti, attenti, premurosi. «Non chiudevano occhio finché io e Sofia non eravamo a casa. Hanno i numeri di tutti i nostri amici. Chiedevano quelli di ogni nuova compagnia.» Ma quando si vive in una società dove la vittima è sempre sospetta e chi uccide può cavarsela con qualche commento tipo “poverino, non l’ha fatto apposta”, forse è il sistema che deve farsi un esame di coscienza.
Maraya studia legge. Vuole diventare avvocata. E in queste parole non c’è solo dolore, ma una promessa: «Credo nello Stato, nella giustizia. E io, mamma e papà, ti daremo la giustizia che meriti, Sofi. Finché avremo voce, la useremo per te».