BARI - «Fisicamente sto bene, psicologicamente mi devo rimettere». L'infermiere aggredito pochi giorni fa all'interno del carcere di Bari ha la voce che trema e trenta giorni di prognosi per quello che ha subito. «Ma che sia chiaro, io sono un combattente – ripete -, io voglio tornare al mio lavoro, perché amo quello che faccio. Anche se all'interno di un penitenziario. Anche se è molto duro lavorare a certe condizioni».
Martedì scorso c'è stato un episodio di violenza da parte di un detenuto in medicheria ai danni di un medico ed un infermiere presenti. Solo l'ultimo caso in ordine di tempo: la settimana prima sempre nel carcere di Bari due medici erano stati aggrediti verbalmente da altri detenuti che hanno minacciato di morte la famiglia dei professionisti.
«Quello di martedì è un episodio che poteva avere conseguenze molto più gravi. Ognuno di noi deve gestire da solo circa 150 detenuti, persone che per me non sono dei reclusi, ma pazienti. Io cerco di curarli. Ma la struttura è quella che è: il carcere di Bari è vecchio, la medicheria altro non è che una serie di celle convertite in spazio medico. Sono moltissimi i detenuti con patologie, da chi è diabetico a chi soffre per stati di ansia, c'è chi ha problemi cardiaci e chi una situazione anche più grave. A centinaia. In pratica più che un penitenziario sembra un ospedale».
Martedì scorso il personale sanitario in turno viene avvisato che un detenuto è caduto in cella e si è fatto male. «L'ascensore è rotto, quindi l'uomo, che sembrava semi svenuto, è stato accompagnato lungo le scale da altri detenuti. In medicheria lo abbiamo fatto stendere, non sembrava agitato. Era sporco di sangue, io gli stavo pulendo la fronte per vedere dove aveva battuto, il medico lo tranquillizzava».
In pochi istanti il detenuto esplode di rabbia o per un attacco di panico incontrollabile. Fatto è che aggredisce il medico e l'infermiere, sbatte il primo contro il muro, si scaglia contro il secondo facendo volare ogni tipo di attrezzatura sanitaria ci fosse a tiro.
«Sono stati momenti che sinceramente ancora oggi faccio fatica a ricordare e mettere a fuoco. Grida, poi l'intervento di altri detenuti per cercare di calmarlo, gli assistenti, l’ispettore...». Mentre l'infermiere racconta ha bisogno di una pausa. «In medicheria ci sono tanti oggetti pericolosi per l'incolumità nostra e dei detenuti. Strumenti affilati, provette di sangue. Il mio timore era che oltre a noi personale sanitario anche che altri si potessero far male. Credo di aver iniziato ad urlare: “io qui vengo a lavorare non a vivere certe violenze”».
Gli aggrediti vengono portati al pronto soccorso del Di Venere. Fisicamente non hanno subito grossi problemi, ma sono molto provati. «La collega del Pronto soccorso, mentre mi assisteva, mi ha raccontato che a lei è capitato che una paziente la aggredisse tirandole i capelli. Infermieri, medici, facciamo lavori che spesso le persone non capiscono. In carcere poi, è una realtà che se non si prova, non si capisce veramente. Lì tutto è aumentato, come vedere la realtà con una grande lente di ingrandimento. La mia rabbia oggi è di non aver saputo difendere la mia medicheria. Tutto è accaduto così velocemente, in pochi secondi, che non riesco neanche a mettere a fuoco gli eventi. Resta il dolore, lo spavento. E' impensabile che io debba uscire per andare al lavoro e correre il rischio di rientrare con un naso rotto, o una malattia. Ho figli, una famiglia, chi mi tutela?».
Le domande restano quasi sospese. Le risposte dovrebbero essere istituzionali, ma il grido è come non venisse udito.
«Questi casi si stanno moltiplicando. C'è l'aggressione ad una collega da parte di un detenuto che ha cercato di baciarla, un altro che arriva in medicheria con una lametta in bocca. Tutti noi cerchiamo di dare il massimo, ma la situazione si sta aggravando. Abbiamo turni di lavoro che iniziano alle 6 di mattina, ci alziamo alle 4. Dobbiamo sempre guardarci attorno anche se andiamo in una pizzeria perché lavorando in un carcere la prudenza non è mai troppa. Ed ora anche questo».