di BENEDETTO SORINO
La forza di Angela Merkel è stata finora direttamente proporzionale alla pochezza o irrilevanza degli avversari. Dentro e fuori dal suo partito, la Cdu, versione tedesca di quella nostra Democrazia cristiana estinta, che a non a caso molti oggi rimpiangono.
Dalle nostre parti, è raro che si osservi il passato politico-partitico tralasciando un’endemica attitudine di consorterie e tifoserie.
La migliore definizione della nostra «espressione geografica» resta quella di Winston Churchill: «Gli italiani vanno alla partita di calcio come se fosse una guerra e alla guerra come se fosse una partita di calcio».
Messe da parte, invece, le partigianerie, chi non riconoscerebbe oggi che alcuni dei migliori statisti partoriti nella penisola sono stati democristiani, da Alcide De Gasperi ad Aldo Moro? E chi negherebbe loro una statura tanto più imponente quanto minuscola quella dei «nemici» del tempo?
Ciò vale in egual misura per la Germania. È stato il cristiano-democratico Helmut Kohl a dare la spallata decisiva al Muro di Berlino in quell’incredibile anno, il 1989. Un colpo di genio, il suo, l’introdurre, da un giorno all’altro, la parità tra il marco dell’Ovest e quello dell’Est.
Se oggi, quasi 30 anni dopo, l’ex Ddr non equivale a quel Sud eternamente in debito d’ossigeno rispetto al Nord, lo si deve al gigante Kohl che ha saputo cambiare la Storia.
L’avversario numero uno di Angela Merkel, l’ex «pasionaria» anti-comunista della Ddr, si chiamava Martin Schulz, un politico navigato, da noi conosciuto per un pubblico diverbio con Silvio Berlusconi nell’emiciclo del Parlamento europeo. Una figura nota alla burocrazia di Bruxelles, poco alla gente comune.
Angela non poteva non prevalere, guardando oggi ai risultati elettorali. Ha vinto, infatti, pur subendo un pesante arretramento in termini di voti e seggi. La sua Cdu resta il primo partito e l’ago della bilancia per qualsiasi coalizione di governo, sia con i socialdemocratici, benché oggi si chiamino all’opposizione dopo il tracollo, sia con Liberali e Verdi, reduci entrambi da un esito di rilievo.
Il successo dell’Afd («Alternativa per la Germania»), un movimento populista con venature neonaziste, desta preoccupazione, ma anche un risultato del 13% e 87 seggi, pur clamoroso, rischia di rimanere residuale nell’ambito di una solida architettura istituzionale come quella tedesca.
Ha dell’incredibile un’avanzata di queste proporzioni. L’Afd aveva conquistato solo il 4,7 per cento nelle elezioni federali di quattro anni fa, ora guadagna più di otto punti pecentuali. Un balzo storico.
Ed è un boom, per quanto possa presto rivelarsi sterile, in grado di rievocare sotto traccia l’incubo di una Germania filo-hitleriana dura a morire. Una sorta di Dna in grado di rinnovarsi, nel quale l’esasperato nazionalismo guerrafondaio del tempo passato riesce a mutare pelle in chiave moderna. In un nazionalismo tutto puntato sulla distruzione dell’Unione europea
Si sono svolte due partite. La prima, tra Spd e Cdu, è stata stravinta dalla seconda formazione, nettamente. Ma anche la seconda, a una lettura attenta, può rivelarsi in fondo un successo della cancelliera. I populisti, con ogni probabilità, resteranno minoritari, in grado di raccogliere soltanto la protesta più estremistica. Un movimento mutilato nelle aspirazioni di governo.
Tenere la barra dritta sull’europeismo è costato un prezzo alto alla Merkel. Ancor di più i suoi propositi di integrazione dei migranti. Intenzioni spesso già tradotte in fatti con teutonica puntualità e organizzazione. Nel tessuto di un Paese che soffre come il nostro del crollo delle nascite.
Dopo tutto è lei l’unico statista di rilievo dell’Unione europea, una diga alla disgregazione. Che Dio illumini la signora Merkel. Ne abbiamo tutti un gran bisogno.
di Benedetto Sorino