È il bello e il fascino della politica. Sei mesi fa il “pugliese” Massimo D’Alema era nella polvere perché proprio nella sua regione era stato sconfitto il progetto di un centrosinistra allargato all’Udc di Casini, già sperimentato con successo nelle ultime amministrative. I risultati delle primarie che portarono alla candidatura di Nichi Vendola vennero letti in vari modi. Ad onor del vero in pochi si azzardarono a dire che era sbagliato il disegno strategico di D’Alema. D’altra parte risulta ancora scontato che una sinistra ridotta nelle condizioni in cui è oggi, se vuole vincere le prossime elezioni politiche che dovrebbero svolgersi tra tre anni, non può non pensare ad un allargamento verso il centro della coalizione. Disegno, quello di associare il partito di Casini e suoi dintorni ad una coalizione, che, chiamiamolo come vogliamo, tutti hanno nei propri progetti, a destra come a sinistra.
In Puglia però il progetto di sperimentare immediatamente una coalizione centro/sinistra/centro, che sulla carta tutti, o quasi, dichiaravano di volere, fallì perché non ci si accordò sul nome del candidato presidente. Tutti sanno come andò a finire. Per ricordarlo in estrema sintesi, sul banco degli imputati finì soltanto Massimo D’Alema, anche se era sotto gli occhi di tutti che la responsabilità del fallimento erano state di carattere tattico e di sopravvalutazione della forza dell’ apparato del Pd, annichilito da divisioni laceranti e delegittimato dagli scandali della Sanità.
Tutti gli illustri commentatori della cosiddetta “grande stampa” si lanciarono sull’ennesima debacle dell’antipatico Massimo D’Alema. “Baffino” aveva fallito ancora. Ogni giorno vennero rovesciate sui lettori pagine di piombo per analizzare le ragioni di una sconfitta che, subita proprio nella sua “Puglia felix”, non poteva che indicare il tramonto: cosa aspettava D’Alema a trarne le conclusioni e, carico dei suoi sessant’anni, scegliere la strada del notabilato, collocandosi anche lui nella nutrita schiera degli “a disposizione della Repubblica”?
Ed ecco, invece, che D’Alema non solo non se ne va a casa, ma lascia la stecca ai vocianti capipopolo di paese che affollano il suo partito anche in Puglia, assumendo nei giorni scorsi il più importante incarico dell’organizzazione europea dei socialisti e dei democratici, cioè il Feps, sigla di “Foundation for european progressive studie”. Vale a dire l’organismo di studio e di elaborazione di tutte le nuove strategie, i nuovi linguaggi che la socialdemocrazia e i partiti progressisti europei attueranno per superare l’attuale crisi che li vede esclusi dal governo in quasi tutti i paesi, dalla Francia alla Germania, al Regno Unito ed anche nelle cattedrali sacre del socialismo democratico, nei paesi del nord del continente. Di fronte al populismo dilagante, che non è più soltanto un fenomeno italiano, e che rischia di provocare nell’immediato futuro effetti impensabili per la democrazia; di fronte alla progressiva caduta di peso politico della vecchia Europa, sempre più emarginata nel contesto mondiale, che premia invece altri protagonismi, culture spesso a noi distanti, i progressisti europei tentano di darsi una nuova cifra, di ricercare nuove ragioni per stare insieme. Un progetto ambizioso e non più procrastinabile. E chi se non un personaggio della caratura politica e internazionale di Massimo D’Alema poteva esordire nel suo nuovo ruolo affermando che è finita l’epoca dei “riformismi nazionali” e che “c’è la necessità di andare oltre il pensiero socialdemocratico”. Dette da qualcun altro, a sinistra e dintorni, potrebbero sembrare eresie.
Si possono affidare i destini di partiti che hanno fatto la storia dell’Europa negli ultimi sessant’anni, che hanno espresso leaders come Mitterand, Palme, Gonzales, Blair, Brandt (sono tanti che molti nomi sfuggono) ad un personaggio minore, ad uno che ha fatto il suo tempo, ad un ex comunista pragmatico e forse anche “togliattiano” che per alcuni (la maggioranza?) andrebbe collocato a riposo? Due le ipotesi: o all’estero la sinistra, comunque definita, sta talmente peggio che in Italia e non sa più a quale santo rivolgersi, oppure, con la nostra solita buona dose di provincialismo, con i nostri giudizi frettolosi ed epidermici non siamo capaci di vedere oltre il nostro naso.