Oggi nascerà il governo presieduto da Mario Draghi. È stato subito ribattezzato «il governo dei due presidenti», soprattutto per quanto riguarda la scelta dei ministri che ne fanno parte. In realtà Draghi ha applicato alla lettera l’articolo 92 della Costituzione, secondo il quale «il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». Una prassi consolidata, e negli ultimi tempi degenerata, prevedeva che gli accordi per comporre le maggioranze passassero anche attraverso gli accordi sui nomi di ministri, viceministri e sottosegretari. Un costume codificato in quello che è passato alla storia come il «Manuale Cencelli» della politica e che sminuiva sia il ruolo del presidente del Consiglio che quello del Capo dello Stato. Il primo era infatti una sorta di arbitro, che doveva conciliare le pretese dei partiti; l’altro un notaio, che si limitava a prendere atto dell’equilibrio raggiunto, con buona pace della Costituzione.
Da oggi la musica è cambiata, è bastato applicare e non più interpretare la nostra Carta fondamentale. Ci sono voluti quasi 75 anni e 66 governi per tornare alla linearità e alla chiarezza voluta dai Costituenti e mettere così al bando il mercato delle poltrone. Nessuno sa se e per quanto tempo il neonato governo potrà andare avanti, ma l’aver recuperato la lettera e lo spirito della Costituzione dovrebbe diventare il punto di partenza per ogni governo futuro.
Nessuno si fa illusioni sul fatto che accadrà. I partiti sono stati messi nell’angolo da quattro condizioni: la devastazione economica e sociale provocata dalla pandemia, l’impossibilità di sperimentare nuove formule di maggioranza, il prestigio del presidente del Consiglio incaricato, la fermezza di Mattarella nell’escludere il ricorso alle urne per via del rischio sanitario. Il triste esempio del Portogallo ha spento ogni possibile polemica su questo punto. Difficile, e per molti versi non augurabile, che una simile alchimia possa ripetersi. Il segreto di Draghi è un po’ l’uovo di Colombo: ha individuato poche cose urgenti ed essenziali da fare, soprattutto nella prospettiva di sfruttare al meglio la valanga di soldi messi a disposizione dall’Unione europea, e ha chiesto ai partiti se fossero disponibili a sostenere un governo con quegli obiettivi e senza che potessero mettere becco sulla squadra. Con logiche e motivazioni diverse hanno accettato tutti, tranne Fratelli d’Italia, con una curiosa contraddizione con l’insegna della ditta. La Meloni ha detto un garbato no a Draghi per coerenza e per convenienza: la prospettiva di accogliere tutti i malpancisti di Forza Italia e, soprattutto, della Lega è più che concreta.
La linea scelta da Draghi e Mattarella nella formazione del governo vede un ampio mix di cosiddetti tecnici e di politici, con alcune conferme significative come Roberto Speranza alla Sanità. La Basilicata vede confermata anche la presenza di Luciana Lamorgese all’Interno. Gli altri confermati sono Di Maio e Franceschini. Sorprende il numero: 24 ministri, con dicasteri completamente nuovi come quello alla Disabilità, all’Innovazione tecnologica, alla Transizione ecologica. Una moltiplicazione di poltrone che – speriamo – sia stata dettata dalla necessità di affrontare in maniera diversa settori nuovi della vita degli italiani, come evidenziato proprio dalla pandemia, si guardi per esempio a tutti gli aspetti tecnologici. Ma la folta schiera di ministri fa pensare anche a un ruolo diretto nella gestione dei fondi europei, evitando il ricorso a taskforce o consulenti vari.
Sotto il profilo degli equilibri politici di rilievo l’affidamento dello Sviluppo economico al vicesegretario della Lega, Giorgetti.
Così come l’attenzione verso Forza Italia con tre esponenti: Brunetta, Gelmini e Carfagna. Un governo «ecumenico»? No, perché Draghi ha fatto valere il principio della competenza in quei settori che evidentemente ritiene strategici per il futuro dell’Italia. A cominciare dall’Economia, affidata a Daniele Franco, dalla Giustizia a Marta Cartabia, dal Superministero verde a Roberto Cingolani (pugliese d’adozione), dall’Università a Cristina Messa, fino all’Istruzione a Patrizio Bianchi e l’Innovazione tecnologica a Vittorio Colao. Sono questi i «motori» su cui puntano Draghi e Mattarella per far ripartire l’Italia, non solo dal punto di vista economico, ma anche sotto il profilo della fiducia. Elemento questo che, proprio con la scelta dell’ex governatore della Bce, ha mostrato tutto il suo peso sui mercati e quanto beneficio – o viceversa quanto danno – può arrecare a un Paese.
Oggi il nuovo presidente del Consiglio e i ministri giureranno al Quirinale, una scelta strategica dettata non solo dall’imperativo di fare presto ma anche dalla voglia di evitare un impatto a caldo con i mercati aperti, il cui giudizio potrebbe essere influenzato dal ritorno di ministri già presenti in altri governi.
Dopo il giuramento e l’inevitabile corsa a svelare retroscena e prospettive, martedì ci sarà il voto di fiducia. Un passaggio fondamentale nel sistema democratico e che spegne le polemiche che affiorano qua là su eletti e non eletti. Secondo la Costituzione è nelle Camere che si manifestano la volontà e la sovranità del popolo, non in un parlamentare che presiede un governo. Il voto di Camera e Senato sarà il banco di prova per capire quanto l’entusiasmo di questi giorni fosse sincero e quindi anche la prospettiva di un esecutivo che non nasce secondo la formula del «governo di unità nazionale», bensì come «governo dei presidenti». Una scommessa che Mattarella e Draghi hanno accettato in nome degli italiani, per riportare al centro dell’azione politica l’interesse della collettività. Una buona scommessa.