«Vecchio, diranno che sei vecchio». È la frase portante di Spalle al muro, canzone portata a Sanremo nel 1991 da Renato Zero (e scritta dalla tarantina Mariella Nava), battuto solo dall’imbattibile Riccardo Cocciante. Un brano che sintetizza il cinismo e il distacco con cui i vecchi – sì, chiamiamoli così senza ipocrisie e non con il termine sicuramente politically correct di “anziani” – vengono spesso guardati dal resto della società, dalla cd. “popolazione attiva”. Quasi che a segnare il valore di un uomo sia la capacità lavorativa del presente.
È un pregiudizio che risale a quando il mondo dell’“avere” ha avuto la meglio su quello dell’“essere” e neanche il Covid-19 è riuscito a far breccia su un assioma deplorevole: “e non produci vali zero” (con la z minuscola).
Il coronavirus ha colpito al cuore le esistenze di coloro che dovrebbero rappresentare l’esperienza e la memoria storica, il punto di riferimento delle nuove generazioni. Un tempo così era, e ricordarlo non significa essere passatisti. Anche se della storia, del passato, ormai da un bel po’ si disconosce anche a livello istituzionale l’importanza, l’essere il faro illuminante dell’oggi e del domani, privilegiando altre conoscenze. Basti pensare alla sciagurata riforma scolastica delle tre “i” che all’inizio del millennio ha relegato nel cassetto le discipline umanistiche.
I vecchi sono feriti mille volte dal Covid-19.
Sono le vittime privilegiate del virus che ha fermato il mondo ormai da quasi un anno. L’intrinseca fragilità dei loro corpi e delle loro difese naturali apre varchi inusitati al Covid-19, cui sono molto spesso destinati a soccombere. Un dato quasi ineluttabile. Ma non è solo questo.
Nel periodo del lockdown tuti si sono concentrati – giustamente – sulle conseguenze, anche psicologiche, della rottura forzata dei rapporti personali. Sugli effetti, potenzialmente irreversibili, della didattica a distanza su bambini e ragazzi. Tutto vero. Ma qualcuno si è mai preoccupato di quanto il lockdown avrebbe inciso, in maniera indelebile, sulle vite degli anziani, molti dei quali già in uno stato di ridotte frequentazioni sociali? E sui loro fisici, spesso impegnati a combattere contro i postumi di cadute e soste forzate? Nessuno. Quelle vite, già difficili, non interessavano a nessuno, se non ai numeri e alle statistiche del contagio. Nonostante la condizione di non-lavoro e la diminuita socialità comportano spesso conseguenze psicologiche serie sulle loro pallide esistenze.
L’esistenza di un individuo va pesata dunque in relazione alla sua aspettativa di vita?
Così parrebbe, a sentire le dichiarazioni infelici del Presidente della Regione Liguria, che il mese scorso si è premurato di precisare come la quasi totalità dei morti in Liguria fosse costituita da persone molto “anziane”, «per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese», o dell’esponente di Confindustria Domenico Guzzini che di recente ha affermato: «anche se qualcuno morirà, pazienza». Dove quel qualcuno, naturalmente, sarà con ogni probabilità un vecchio. Come dire: «vali quattro lire, dovresti già morire» (ancora Renato Zero).
Una sorta di monte Taigeto all’incontrario. Dal quale gettare, come a Sparta nell’antichità secondo la leggenda (poi smentita), non i bambini deformi e troppo deboli, bensì i vecchi corrosi dagli anni e ritenuti inutili.
Ma davvero in questa società globalizzata si è incapaci di empatia verso il prossimo? Di comprendere lo stato di sofferenza altrui senza viverlo?
Eppure un recente censimento Istat ci dice che il tasso d’invecchiamento è in crescita, che ci sono cinque “nonni” per ogni bambino (nel 1951 il rapporto era di uno a uno). Questo significa che nel prossimo futuro sempre più persone si troveranno a vivere la condizione di “anziano” (anzi, di vecchio). Forse, allora, tutti diventeremo più accoglienti e attenti nei confronti dei vecchi (non chiamiamoli “anziani”). Nel 2019, quando ancor ci si poteva dilettare con queste discussioni, la Società Italiana di Gerontologia e Geriatria ha posticipato l’inizio della terza età spostandolo a settantacinque anni. Ma è solo un numero. E una persona non è un numero.
E poi ci sono I vecchi di Claudio Baglioni, nell’omonima canzone. Con la loro «tosse secca» (quasi profetica) e drammaticamente «senza una carezza», «soli come i pali della luce» e con «i figli che non chiamano mai». Storie di solitudine, estremizzate dal Covid-19 – anche se una telefonata non contagia – e che proprio in questo periodo tipicamente di intimità con i propri cari potranno subire un altro colpo micidiale.
Siamo a Natale e non possiamo che concludere con una nota di ottimismo. Quella contenuta nell’ultima parte del brano di Baglioni, il suo sogno: di avere una macchina così grande da poterne caricare tanti per portarli al mare, prendendoli in braccio tutti quanti. Robe da musica leggera? Ma no, basta crederci. Anche perché quella musica a volte tanto leggera non è. Basta volerlo.
E allora, buon Natale a tutti… i vecchi!