«Lucarie’, scètate, songh’e nnòve». Un’apertura di sipario memorabile. Un teatro indimenticabile. Pupella ciabattava dolcemente intorno al lettone che nascondeva un sublime Eduardo infagottato e cominciava la minuscola e amara epopea famigliare di «Natale in casa Cupiello».
Un incipit drammaturgico perfetto con quel Presepio, le pecorelle, quei pastori innocenti e sbrecciati e sgomenti per il contrasto con quelle accese passioni domestiche di una normalità lancinante, con quella vita quotidiana squadernata impudica nella parapettata classica della scena di altri tempi con adeguati quinte e tramezzi, carta dipinta e fondalini colorati.
E con quel caffellatte che, come i caffè di Eduardo, sembrava spargere il suo odore blando e casalingo fino a raggiungere, in loggione, gli spettatori più valorosi, «quelli che vanno a teatro per assistere allo spettacolo, diversi da quelli che si accomodano in platea per fare di sé stessi spettacolo». Questo dicevamo noi del loggione.
Ebbene, sì, noi, i ragazzi del Centro Universitario Teatrale che, in compagnia dei non pochi amatori coraggiosi, ci spingevamo trafelati per le scale erte che portavano a quel bellissimo balcone affacciato sul sogno del nostro domani.
Qui, come dicevo, a me era sembrato di sentire il profumo del caffellatte che Pupella, ciabattando soavemente, serviva all’Eduardo infagottato nei suoi mattinieri borborigmi, spartito di una lingua perfettamente teatrale, un idioletto che apparteneva solo a lui, il Luca della perfetta drammaturgia di quel Natale in scena. Un Natale agrodolce di pietà e gioia malinconiche su cui si apriva quel sipario che oggi sembra proterva, dolce e loquace invasione della memoria d’arte in questi giorni di questa vita.
Mentre in quel teatro, il Piccinni? Che importa, ogni teatro simboleggia tutti i teatri del mondo, è calato il sipario di un silenzio assurdo e amaro. Asfissiante.
Ci avete fatto caso? Ho chiamato per nome due artisti sommi della scena. Forse me lo ha dettato l’armonia dei due artisti che esigevano, sì, d’essere personaggi per affrontare la nostra immaginazione, ma che, per questo, ponevano la maschera del personaggio e, a lui, delegavano la pena delle responsabilità, delle colpe e, perfino il peso solenne dei meriti che è ingente, quando si mette in scena la vita.
E nel loggione del teatro Piccinni a Bari io ho visto Pupella Maggio e Eduardo De Filippo e tutti gli attori della compagnia recitare come va fatto e, cioè, mirabilmente. Ma forse non era il Teatro Piccinni di Bari e non era quel loggione scomodo con quella sbarra di ferro sulla quale i più fortunati della prima fila potevano appoggiare la fronte, pagando il fio della comodità con cefalee feroci. Forse era un altro teatro, un altro loggione, ma che importa? La vicenda della chiusura dei teatri mi sospinge con dolce e smagata malinconia nel ricordo del mio teatro Piccinni, dove quella fortuna bonaria che sembra proteggere, talora, i teatranti, mi elargì la gioia istruttiva e determinante di frequentare il, magistero artistico di Eduardo. E dove torno con la nostalgia e la memoria tutte le volte che la vita si incarica di ricordarci che nella sua scena si entra e si esce.
L’importante è farlo alla grande. Era il tempo delle generose sventatezze che regolarmente corredano la giovinezza: il teatro e la sua meravigliosa scuola mi regalavano una esperienza vitale.
Di Pupella, di Eduardo e degli artisti del loro rango andava doverosamente registrata anche una virtù sublime e preziosa: l’ironia. Di questa sembra sempre più manchevole la scena contemporanea, la scena di quel «teatro di ragionieri e contabili» che tanto spiaceva a Paolo Grassi. Ed io compresi che quell’ironia andava coltivata e custodita nel baule dei teatranti che si rispettino, nel corredo dei trucchi e degli orpelli, delle cartepeste e dei baffi finti di ogni attore.
Per questo so che Eduardo, Peppino, Pupella e tutti gli altri, in questo momento, sorridono, ma tristemente, come solo gli attori sono capaci di fare: sanno dei nostri teatri ammanettati e ammutoliti. Mi piace sognare che si ritrovino in eccellente compagnia, anzi in una «Eccellente Compagnia», la maiuscola formazione del teatro napoletano e italiano che viaggia in una tournée che non finirà più. Una tournée senza soste magre, senza teatri freddi e pieni di spifferi, senza debutti massacranti, con la paga sicura, comodi camerini, alberghi confortevoli, ristoranti a prezzi equi, quelli dove non è necessario ordinare «una mezza porzione di rigatoni al sugo, abbondante», per risparmiare.
Sergio Tofano si compiacerà di ritrovare la Compagnia di Prosa perfetta che descrisse nel suo indimenticabile libro «Il Teatro all’Antica Italiana» con il «Padre nobile» e la «Madre nobile», il «Prim’attore» e la «Prima Donna», l’«Amoroso» e l’«Amorosa», il “«Carattere», il «Generico», il «Promiscuo».
Chi sa se anche nel paradiso degli attori esiste, come mi capitò di incontrare in una terrestre tournée, il «Generico utilitè» per «parti con parrucca e senza», attore che si definiva così sulla sua carta da visita per far capire che era calvo. Forse, come auspica Montale per chi si vuol bene, i teatranti di una volta hanno convenuto un segnale sonoro per riconoscersi nell’aldilà e ritrovarsi, per scambiarsi le ultime notizie e un abbraccio un po’ esagerato come solo noi sappiamo fare e i pettegolezzi più freschi.
Ha ragione il mio amico De Crescenzo («Ha ragione» perché Luciano mi fa ridere e pensare ancora): fanno proprio una grande compagnia, a maggior gloria del Padreterno che, si sa, per gli attori deve aver un occhio indulgente. E allora non distragga lo sguardo dai teatri e dagli artisti dei nostri palcoscenici. Qui la stagione deve continuare: per gli artisti che hanno bisogno della casa dell’arte e per il pubblico che vuole la sua casa. Io, come ogni anno, ho fatto il presepe. E ho fatto un voto: la speranza che questo buio intervallo finisca, è una messinscena, il presepe, di teatro ancestrale, dove recita Dio.
















