Il problema è antico. E forse costituisce «il» problema della moderna democrazia. Milton Friedman ha affermato nel secolo scorso che occorre «eliminare la burocrazia tagliandole l’erba sotto i piedi». Un intervento radicale, insomma. Si può essere d’accordo o no con il suo approccio all’economia, ma è difficile trovare argomenti per smentire quest’affermazione.
Occorrerebbe, com’è stato da alcuni teorizzato, uno Stato light e non uno Stato regolatore che interviene in ogni aspetto della vita sociale, affinché non venga ceduto alle burocrazie il grimaldello per entrare nelle stanze dei bottoni e manovrare le leve del potere.
L’estrema varietà di fonti normative che l’ordinamento ci offre consente di sfornare regolamenti, ordinanze, direttive, circolari e quant’altro che – pur essendo sottordinate alla legge – sono in grado di rallentare, se non di ostacolare, le scelte politiche di carattere generale. L’amministrazione, insomma, fagocita il legislatore, divenendo di fatto il soggetto dominante nella geografia dei pubblici poteri.
Non sono peraltro le regole, di per sé, a mettere nell’angolo la collettività, ma coloro che quelle regole applicano, cioè a dire chi amministra la cosa pubblica. Non basta – seppur sarebbe necessario – semplificare e arginare il profluvio di norme sempre più contorte e illeggibili che il «centro» produce, con picchi inverosimili in presenza di emergenze (vere o presunte che siano), occorre che tali norme non diventino il cavallo di Troia per un golpe silenzioso dei burocrati (che, come si sa, a differenza dei politici si caratterizzano per la loro permanenza nel ruolo che occupano).
Le stesse norme primarie, peraltro, proprio nei periodi di emergenza assumono un grado di analiticità che non appartiene loro, disperdendosi in rivoli che ne rendono assai complicata l’interpretazione e, dunque, l’applicazione. Decreti-legge e Dpcm utilizzati generosamente dal governo in questo periodo ne offrono una chiara dimostrazione. Se a ciò si aggiunge il fatto che il pubblico amministratore, complice la sindrome derivante da fattispecie penali eteree, spesso teme di prendere decisioni sbagliate e, dunque, preferisce (per usare un eufemismo) agire con estrema cautela, il quadro plumbeo si completa destinando la gestione amministrativa a un’inevitabile rottamazione.
Le conseguenze sono disastrose, e non solo sotto il profilo teorico dei rapporti tra poteri dello Stato.
Tale trasformazione sottile, difatti, si traduce in un intralcio all’agilità delle attività economiche che, in primo luogo, mette in fuga gli investitori esteri abituati ad avere a che fare con strutture amministrative snelle. Quanto agli imprenditori del nostro Paese, non c’è da stare allegri. Per aprire un esercizio commerciale occorrono decine di istanze e di permessi da richiedere a una miriade di enti pubblici, con relativi costi in tempo e in denaro. Questo, però, giustifica l’esistenza di una macchina burocratica titanica che si autoalimenta. Certo, c’è da chiedersi perché la politica – nonostante più o meno vaghe promesse – non intervenga con riforme radicali a mutare lo stato delle cose, inaccettabile e deleterio. Eppure si tratta di riforme a costo zero. Basterebbe, ad esempio, prevedere la nomina a tempo dei burocrati. Certo, sono riforme di sistema e dunque non hanno un riscontro immediato spendibile in termini di consenso. Ma forse c’è dell’altro. Comodo, infatti, trincerarsi dietro l’inefficienza della pubblica amministrazione – che a volte si presenta come un’entità impalpabile se non sovrannaturale – per giustificare errori e negligenze dell’azione di governo.
Nel 2014 l’Economist, a proposito di crisi della democrazia, ha affermato che il miglior modo per arginare il potere degli interessi particolari è limitare il numero di cose di cui lo Stato può occuparsi, riproponendo a chiare lettere il modello dello Stato leggero: «Le democrazie mature, come quelle nascenti, richiedono adeguati interventi di limitazioni e garanzie sui poteri dei governi eletti». Ne trarrebbero giovamento le libertà di ciascuno.
Ridimensionare lo spazio che lo Stato occupa nella società e, dunque, nelle nostre vite dovrebbe essere l’obiettivo principale di una leadership che guarda lontano. Aspirazione, però, destinata con ogni probabilità a rimanere nel libro dei sogni. Meglio continuare a regolamentare, micro-regolamentare, sub-regolamentare, fornendo materia prima a chi amministra e dispensando rassegnazione al cittadino.