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Fuga dal M5S: non è solo una questione di poltrone

 
Giovanni Valentini

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Giovanni Valentini

Fuga dal M5S. Non è solo una questione di poltrone

E addirittura volevano “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”

Mercoledì 01 Luglio 2020, 17:14

È passata molta acqua, e non sempre perfettamente limpida, sotto i ponti della politica italiana da quando i Cinquestelle si rifiutavano di parlare con i giornali e di andare in tv, trincerandosi dietro la pretesa della propria “diversità”. Allora respingevano sdegnosamente l’appellativo di “griGrillollini”. E addirittura volevano “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”.

Nel frattempo, il M5S ha vinto le elezioni politiche del 2018, raccogliendo oltre dieci milioni di voti con il 32,6%; è andato al governo prima con la Lega e poi con il Pd, sempre sotto la guida di Giuseppe Conte; ha dimezzato i consensi nei sondaggi, tanto da non essere considerato più il primo partito; e soprattutto ha perso per strada una trentina fra deputati e senatori, transfughi o espulsi.

Una tale emorragia, a parte il fenomeno endemico del trasformismo italico, non si può attribuire soltanto alla voglia di essere rieletti e di conservare il seggio nella prossima legislatura. Al fondo, c’è verosimilmente una crisi d’identità e di cultura politica che deriva dalla natura stessa del Movimento, una formazione “in fieri” che – non a caso – s’è definita fin dall’inizio “né di destra né di sinistra”. Una connotazione così eterogenea può funzionare sul piano elettorale, fino a quando non si assumono responsabilità di governo che impongono di fare delle scelte, dire tanti “sì” e tanti “no”. Ma arriva il momento in cui bisogna decidere da che parte stare, anche perché l’attuale opposizione di centrodestra si presenta – almeno in apparenza – più coesa e compatta.

Ora non c’è dubbio che, attraverso la doppia militanza di governo, nell’arco di due anni i “grillini” siano cresciuti e maturati, anche per effetto della leadership accorta ed equilibrata di Giuseppe Conte. Sono diventati più responsabili. E quando parlano con i giornali e vanno in tv o alla radio, si mostrano in genere più preparati e affidabili di un tempo. Evidentemente, il cosiddetto “bagno istituzionale” ha giovato anche a loro, come del resto era accaduto in passato per le forze storiche della sinistra, in virtù di quello che Aldo Moro chiamava “l’allargamento della base democratica del Paese”, o perfino per i leghisti e i post-fascisti.

L’epidemia da coronavirus intanto ha messo a dura prova, insieme a tutti gli italiani, anche gli alleati del governo giallo-rosso. E quel matrimonio che “s’aveva da fare” tra il Pd e il M5S ha favorito in effetti uno scambio reciproco di competenza ed esperienza, da una parte, e di rigore e intransigenza dall’altra. Nessuno può disconoscere che il richiamo costante alla legalità sia un “plus” introdotto dai Cinquestelle rispetto alla consuetudine del malaffare e della corruttela nella vita pubblica italiana.
Ma adesso, alla vigilia delle regionali di settembre e soprattutto in vista delle prossime elezioni per il Quirinale e poi delle politiche, quel matrimonio di manzoniana memoria non può regredire allo stato di fidanzamento, con due partners diffidenti, sospettosi e litigiosi. Né il M5S né il Pd riusciranno mai a conquistare da soli la maggioranza. E anzi, dovranno affrontare nelle urne e in Parlamento una coalizione di centrodestra che fa di tutto per dissimulare, occultare, smussare le differenze fra le tre componenti da cui è formata.

Le regionali, distinguendo caso per caso, rappresentano dunque un banco di prova per sperimentare intese elettorali, convergenze o desistenze, se non proprio un’alleanza organica, in modo da competere alla pari con il fronte avversario. A cominciare magari dalla Puglia dove i risentimenti personali di Matteo Renzi e i distinguo di Italia Viva minacciano di mettere a rischio la rielezione del presidente uscente Michele Emiliano, l’esponente del Pd più vicino ai Cinquestelle. Nel confronto diretto con l’ex governatore Raffaele Fitto, transitato da Berlusconi alla Meloni, la candidatura di un “terzo incomodo” come l’oriundo Ivan Scalfarotto può soltanto giovare al centrodestra.

La verità è che il Movimento 5 Stelle, dai tempi del fatidico “contratto di governo” sottoscritto con la Lega di Matteo Salvini, è passato ormai di fatto a un accordo di maggioranza con il Partito democratico. E lo stesso Luigi Di Maio, all’inizio scettico e diffidente, s’è dovuto convertire a questa nuova alleanza dichiarandosi “positivamente stupito dal Pd” in una recente apparizione televisiva. Basta immaginare quali effetti potrebbe provocare l’esito del voto di settembre sulla tenuta del governo Conte, e anche sugli equilibri parlamentari - con i “Grandi elettori” in rappresentanza delle Regioni - da cui scaturirà l’elezione del prossimo presidente della Repubblica, per valutare con estrema attenzione e senso di responsabilità da qui a settembre le mosse più opportune da compiere.

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