Domenica 07 Settembre 2025 | 23:49

Quando a scuola c’era lo «smart working»

 
Michele Mirabella

Reporter:

Michele Mirabella

Quando a scuola c’era lo «smart working»

Parlo della scuola, come l’attualità impone, cominciando dal verbo ripetere nel modo participio, tempo presente: ripetente

Domenica 28 Giugno 2020, 19:06

Parlo della scuola, come l’attualità impone, cominciando dal verbo ripetere nel modo participio, tempo presente: ripetente. Lo studente (altro participio presente) che non studia, contraddicendo la propria definizione, restando ignorante e nella stessa classe, chiude le sue speranze di dare un miglior senso alla vita. Ma molti studenti vogliono studiare. Oggi non possono, se non con gravissime difficoltà. Lo stato che fa? Studia soluzioni. Ma resta ripetente. E ciuccio.
Ho sostenuto gli esami di maturità al Liceo Classico «Virgilio» di Gioia del colle. Troppi anni fa. Vi fui destinato d’autorità per la mia condizione di «privatista».

Per recuperare anni persi per sciagurate o giustificate ragioni, il giovane ripetente poteva decidere di «fare il salto», di ritirarsi dalla corvée della frequentazione scolastica con l’obbligo alla diuturna frequenza e, non senza il sospetto di spavalderia, di affrontare gli studi da solo, lontano dalla piccola folla della sua classe, dalla pletora di docenti e dall’aula della disciplina scolastica. Io fui tra quelli.

Molti conoscono che cosa fosse quella condizione limbica: studenti che s’erano preparati lontano dalle aule scolastiche, privatamente, appunto. Molti tra loro avevano sciolto il legame finale con l’ordinamento della scuola: lo ritenevano penitenziale e prendevano la strada avventuriera dell’esame da privatista. Curioso, ma vero, è che non venisse in mente che tutto questo negasse una bellissima conquista sociale: la scuola pubblica. Non sapevamo di aver inventato lo smart working applicato allo studio. Senza iattanza, ma con ansiosa tremarella, affrontavamo la malinconia della solitudine, pur nella comprensione di quanto non fosse così inutile imparare, grazie allo studio, dal momento che godevamo della libertà di non praticarlo. La cattedra era deserta.

Costui era detto, dunque, «privatista». Non era visto di buon occhio, anzi: v’era verso di lui un non so che di vigilanza soverchia, d’attenzione curiosa, di sospetto. Era, il privatista, un legionario straniero che aveva anticipato l’uscita dal nido mettendosi in viaggio senza il viatico rassicurante dell’istituzione scolastica, sciogliendosi dall’onere diligente della frequenza noiosissima e studiando da solo o appena assecondato da lezioni, anch’esse, private. Queste che furono e, forse, ancora lo sono, provvidenziali integrazioni salariali per i professori maltrattati dall’esosità dello Stato così ignaro della benemerita categoria, erano considerate dalle commissioni con malcelata antipatia, non si può negarlo. C’era, poi, anche il sospetto che il privatista fosse solo un figlio di papà ciuccio spintonato verso la maturità grazie a raccomandazioni e dosi massicce di nozionismo dell’ultima stagione.

Generalmente la falce delle commissioni calava pesantemente sui privatisti in un’epoca in cui i maturi al primo turno erano un’esigua minoranza, molti solo dopo il ballottaggio di settembre e non pochi i respinti senza pietà nel purgatorio dei ripetenti. Capitava, e a me capitò, d’incontrare nella commissione vagabonda che ti toccava in sorte, un professore che t’aveva preparato. In tal caso la giustizia scolastica ti destinava ad altra giuria esaminatrice. A me, appunto, successe: ed eccomi nei grandi e luminosi corridoi del Liceo Classico Virgilio di Gioia del colle da privatista deportato, per giunta.
Era una bellissima mattina di luglio e l’aria profumava di campagna anche nelle aule stagionate della scuola e, anzi, l’odore d’erba e terra e frutta si mescolava con quel tanfo tenue che avevano un tempo le scuole: un misto d’inchiostro, polvere, gesso, sudore, lavanda della professoressa d’educazione fisica, merende, matite, carta di quaderno, legno dei banchi, greve fumo di Nazionali super, fiori appassiti e cesso.

Il sole allagava di luce il corridoio dove sedevano, uno per banco, i maturandi tutti vestiti a festa. S’usava andare all’esame così, con una pretesa, se non d’eleganza, certo di correttezza. Mia madre aveva imposto la camicia bianca e una cravatta regimental di mio padre, rossa e blu.

Questi tremanti figurini si sarebbero dovuti misurare con i temutissimi temi. M’era stato detto di far attenzione all’elaborato (così dicevano i Provveditori) d’Italiano perché la commissione l’avrebbe tenuto in gran conto onde valutare la maturità del candidato, a cominciare dalla scelta della traccia. Noi n’avemmo tre. Le trovai tutte e tre belle e sentivo che avrei avuto da scrivere in tutti i casi. Ci pensai su. Scartai il tema storico, diffidando della memoria delle date e per la mia scarsa simpatia per le conquiste coloniali italiane di cui avrei dovuto discettare. Altrettanto feci con il tema di Storia dell’Arte che, pure, m’affascinava con la riflessione che ci si chiedeva sulle cattedrali. Avevo in serbo un’elegante citazione a proposito di quei vertiginosi libri di pietra, ma lo sfoggio non sapeva andar oltre e rinunciai. Mi restava la traccia letteraria. Era spaventosa e bellissima: la concezione del dolore in Leopardi e Manzoni. Punto. Tutto qui. M’avventai sul foglio protocollo della «brutta» e sciorinai quello che avevo imparato ad amare sull’argomento. Mentalmente ringraziavo il mio amatissimo professor Peppino Ricapito che aveva avuto il coraggio di affardellarsi del compito di istruire quel bel pezzo di privatista ch’ero io e scrissi a braccio con veemenza e passione. Ammetto il piccolo peccato di vanità con il rimorso alimentato dalla nostalgia: consegnai dopo tre ore tra l’incredulità e l’invidia dei compagni appena conosciuti. Uscii che il sole era quasi a picco.

M’accorgo che avevo cominciato a scrivere un prologo per meglio confessare lo sgomento causato dal giornalistico discorrere sulla scuola che dovrà aprire le porte a settembre e mi domando a chi sia venuto in mente di imporre agli alunni la distanza minima tra «le rime boccali». Non si tratta di endecasillabi in rima alternata, né di frondosi esametri, no. Si tratta di bocche dentate. Quelle studentesche. Avrei voluto approfondire questa e altre comiche nefandezze circa la difficile situazione della scuola italiana. Avrei voluto, ma sono andato fuori tema.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)