In molti si stanno chiedendo quale sia la soluzione migliore per poter ridurre gli effetti negativi della pandemia a livello economico e sociale. Al di là della dialettica degli opposti, come Hegel avrebbe definito la rappresentazione di posizioni antitetiche, è necessario che le proposte di maggioranza e opposizione, per poter essere valutate nel merito oltre che nel metodo, rivelino qual è l’idea di Stato dalla quale traggono ispirazione.
Va bene muoversi prescindendo dal condizionamento delle grandi narrazioni del XX secolo e assecondando le dinamiche della società de-ideologizzata, ma occorre porsi con urgenza il problema di ciò che lo Stato dovrebbe fare e di ciò che non dovrebbe fare. L’umanità è sospesa tra “un non più” e un “non ancora”, è in bilico tra due consapevolezze. La prima: poco o nulla tornerà come prima della diffusione su scala globale del Covid-19. La seconda: vi è un tale margine d’incertezza ed imprevedibilità sugli sviluppi futuri da essere autorizzati a contemplare anche la presenza di scenari e previsioni assai pessimistiche. Porsi il problema di quale possa e debba essere il ruolo dello Stato in relazione al mercato è un modo utile per affrontare questa fase storica, nella quale si incontrano e scontrano tendenze a conservare posizioni di rendita e disegni di innovazione spinta, in alcuni casi senza che essi siano effettivamente suffragati dalle specificità dei contesti di riferimento. Un contributo molto utile arriva dal pensiero sturziano.
Si deve al prete di Caltagirone un’idea di Stato che sappia non degenerare in statalismo e un’idea di mercato che non si trasformi mai in mercatismo, in capitalismo cinico ed egoista. Per Sturzo libertà economiche, libertà politiche, libertà individuali, libertà morali sono facce della stessa medaglia. Un convincimento il suo maturato anche in funzione del pericolo che l’economia di mercato si limiti, almeno in fase attuativa, alle piccolissime e piccole imprese. L’idea sturziana di concorrenza, all’interno del quadro di regole definito dal legislatore, si rese fin da subito compatibile con il principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale. Il richiamo alla concretezza degli Stati generali effettuato dal governatore di Bankitalia va in questa direzione. Chiediamoci allora qual è, arrivati a questo punto, il modello socio-economico che vogliamo portare avanti.
Da un lato c’è un’idea incentrata quasi esclusivamente sul rafforzamento della presenza dello Stato in economia: idea che molti tendono a far apparire come una soluzione indispensabile di fronte alle molte manifestazioni di disagio sociale, ma che se gestito in modo non oculato incoraggia l’aumento del debito pubblico. Dall’altro c’è una progettualità costruita sul presupposto dell’ibridazione del sistema pubblico con quello privato. A tal fine, però, alcuni correttivi si rendono indispensabili: riduzione del peso della burocrazia; maggiori e migliori semplificazioni normative; diminuzione della pressione fiscale; agevolazioni per chi garantisce lavoro ed occupazione; incremento dei processi di innovazione e digitalizzazione per rendere aziende e sistema Paese più competitivi; gestione contestuale delle spinte in favore della globalizzazione e delle controspinte in favore della de-globalizzazione, cavalcando con intelligenza e lungimiranza le richieste di trasformazione dei modelli produttivi e di consumo a vantaggio di una rinnovata alleanza tra capitale e lavoro. Tutto sommato era quello che, sia pur in tutt’altro contesto storico e politico, voleva don Sturzo. Lui che nella strutturazione del proprio pensiero economico si ispirò a Menger più che a Keynes, avendo sensibilità nei confronti dell’opzione delle scelte individuali. Nel suo caso, l’attenzione più che sulle classi sociali si concentrò sull’individuo di cui si prese in considerazione il soddisfacimento dei bisogni secondo l’approccio dell’utilità marginale. Ragionare secondo questa logica significa ri-gerarchizzare le priorità rispetto alle quali pianificare e concretizzare interventi migliorativi. Come sappiamo, la teoria keynesiana deviò fin il pensiero neoclassico in favore di un’impostazione macro-economica incentrata sulla necessità di un intervento pubblico statale a sostegno della domanda di consumi, di investimenti, di occupazione, di crescita anche (soprattutto) in condizione di deficit. È una questione che vale tutt’oggi per l’Italia e per l’Europa, il cui cambio di paradigma è stato accettato solo davanti al forte calo del Pil e al numero elevatissimo di vittime da pandemia.
Aggiornare le regole del gioco è diventato un imperativo categorico per tutti. Si riconosca che una teoria neo-keynesiana o “diversamente- keynesiana” dovrebbe contemplare anziché il principio riassumibile con la formula “più Stato e meno mercato”, quello di “Stato più veloce e più intelligente” e di “mercato più equo e solidale”. Se non si vuole ascoltare per intero la lezione sturziana, almeno si concorra ad edificare le fondamenta di un nuovo modello di sviluppo misurabile con i parametri dell’uguaglianza, della sostenibilità, dell’iniziativa economica privata e del welfare, dentro il perimetro della democrazia liberale.
Ridurre i danni dell’ondata statalista, scelta pur giustificabile in linea teorica di fronte alla paura e alla rabbia sociale maturata nella società pandemica, è necessario. Si tratta, infatti, di un obiettivo perseguibile tramite limiti individuabili in base a variabili temporali o in base alla reale strategicità delle imprese. Puntare sull’economia mista non significa, dunque, favorire la riedizione di formule del passato, rivelatesi dannose ed ora non più accettabili per i cambiamenti geopolitici e geo-economici in corso. Significa stabilire la giusta distanza con la quale gestire il rapporto tra pubblico e privato in economia. Rileggere Sturzo può essere utile.