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Le buone intenzioni non finiscono mai

 
Leonardo Petrocelli

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Leonardo Petrocelli

Il premier Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Se cambiare il nome al Mes per farlo ingoiare agli antieuropeisti era un’idea bislacca, da basso artificio, scegliere un’altra denominazione per gli Stati generali sarebbe stato forse sensato

Sabato 13 Giugno 2020, 14:53

16:43

Se cambiare il nome al Mes per farlo ingoiare agli antieuropeisti era un’idea bislacca, da basso artificio, scegliere un’altra denominazione per gli Stati generali sarebbe stato forse sensato. E più prudente. La famigerata kermesse, in sostanza, altro non è che un percorso a tappe per delineare quel famoso piano di rilancio da costruire con i fondi europei. Nella speranza, non è un dettaglio, che la trattativa comunitaria non ci restituisca solo le briciole alla fine del negoziato.

Ma gli Stati generali, storicamente, sono un’altra cosa. Li convocò, ultimo atto, Luigi XVI nel 1789 per contrastare la crisifinanziaria e politica che stava travolgendo la Francia.

In estrema sintesi, l’occasione accoglieva membri eletti di clero, aristocrazia e popolazione rurale i quali - non è un dettaglio - si riunivano e votavano. Una sorta di Parlamento, dunque, nonché un assist involontario offerto al centrodestra che diserterà la manifestazione chiedendo un percorso di ascolto e condivisione più istituzionale. «Gli Stati generali sono il Parlamento», vanno ripetendo Lega&co da giorni, sfruttando il cortocircuito.

Un atto di accusa che dovrà bruciare non poco al presidente del Consiglio il cui intento, nel varare la manifestazione, era - anche solo sul piano comunicativo - proprio quello di «allargare» la scena e l’ascolto, dopo mesi di Dpcm e decreti fatti ingoiare a colpi di fiducia. E dopo che la tregua politica, inaugurata in nome dell’emergenza sanitaria, s’era sciolta come neve al sole allo scoccar fatidico del 2 giugno tra le grida di guerra della piazza conservatrice.

Ma il dado è tratto. Il serpente di relazioni incontri e confronti che si snoderà da oggi a villa Pamphili, lontano dalle orecchie indiscrete della stampa (altro elemento di poco pregio), sarà - si spera - soprattutto un esercizio di contenuto oltre che una sfilata di nomi altisonanti. Dunque, dentro il gotha dell’economia globale, dalla governatrice della Bce, Christine Lagarde, alla presidente della Banca Mondiale, Kristalina Georgieva, (mancherà Mario Draghi, però), poi le principali realtà industriali italiane, le parti sociali, gli economisti harvardiani. Per scongiurare ulteriori polemiche, Palazzo Chigi ha messo «a dieta» la kemesse: niente cene, niente buffet, niente chef stellati. Rigore e sobrietà per tutti come impone, tocca dirlo, il populismo dominante.

Fra le personalità di spicco ci sarà Vittorio Colao, il manager alla guida della task force per la ripresa che ha presentato al premier Conte oltre 100 idee per la rinascita italiana. Un documento che, altro cortocircuito, è piaciuto più al centrodestra che alla maggioranza giallorossa. Ma il grosso handicap è di essersi dimenticati per strada il Mezzogiorno, segmento d’Italia in parte risparmiato dalla pandemia ma che rischia ora di subire il danno più grosso, quello dello sgretolarsi di un tessuto economico già prostrato. Agli Stati generali toccherà il compito di riequilibrare una situazione di merito e metodo che l’assenza degli amministratori locali, pare scongiurata, rischiava di far detonare. Altro tema è quello della sanità su cui la prudenza sarà d’obbligo perché ogni impulso è «appeso» al problema della accettazione, o meno, del Mes. Qui è la maggioranza a consumarsi in uno scontro fratricida che vede i dem confrontarsi con l’anima più barricadera del Movimento 5 stelle: meglio rimandare a tempi migliori.

Cosa resta dunque? Restano i capisaldi su cui l’esecutivo è già all’opera: la semplificazione, le infrastrutture e gli investimenti, snodi nevralgici del Conte-progetto, su cui si verseranno fiumi di parole con un occhio al futuro e uno ai conti. Il rischio reale è che, alla fine della giostra, si etichetti quanto prodotto dagli Stati generali con la stessa espressione con cui Cesare Merzagora liquidò, sferzante, il programma del primo Governo Moro: «Brevi cenni sull’Universo». Un modo ironico per stigmatizzare la profluvie di buone intenzioni partorita ai nastri di partenza. Ma in quel delirio di propositi, sogni e aspirazioni c’era anche l’idea di elaborare uno Statuto dei lavoratori, lo stesso che avrebbe visto la luce sette anni dopo grazie all’impegno, fra gli altri, del giuslavorista Gino Giugni, al tempo docente a Bari. Quindi, mai disperare. Anche se, al momento, tra ritiro delle opposizioni, giornalisti alla sbarra, scintille nella maggioranza e polemiche sulle cene di gala, tutto sembra assumere la forma di una gigantesca montagna all’italiana. Si teme il parto di un topolino.

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