«Non si può morire d'amore, ciao Fabio». Ma era amore l'agguato dei supporter del Rionero quella domenica bestiale del 19 gennaio scorso? Mazze e tirapugni, mica fiori e carezze. Tra tifosi si fa quadrato, ci si giustifica, si alza un muro. Accade anche tra quelli del Potenza e del Rionero in nome di un gemellaggio storico. E così nella curva dello stadio Viviani del capoluogo lucano è apparso lo striscione in cui si saluta il tifoso investito e ucciso a Vaglio scalo, pronto a morire per la patria. Bianconera, come i colori sociali rioneresi. La passione per il calcio e la lealtà tra tifoserie non devono annebbiare le idee. In questa storia, di amore non c'è proprio nulla. Ma nemmeno un atomo. È una vicenda di odio, di campanilismo esasperato, di violenza, diciamo le cose come stanno.
È vero, l'umana pietà non si nega a nessuno, finanche ai mafiosi e ai criminali più incalliti. Pietà e compassione per una vita spezzata, per un'anima da raccomandare al Signore, per una pecora smarrita. Pietà anche per Fabio Tucciariello e per la sua famiglia. Non parliamo, però, di amore. Non è amore aspettare l'arrivo dei tifosi avversari incappucciati e in assetto di guerra. Non è amore portarsi dietro mazze, cavi elettrici e altri corpi contundenti. Non è amore amare la propria squadra al punto da aggredire chi ha una fede calcistica diversa.
Non sappiamo chi abbia materialmente redatto quello striscione, magari è il frutto di una condivisione all'interno della curva rossoblù, il che confermerebbe quanto emergeva dai primi commenti subito dopo l'accaduto, nei quali più che condannare l'aggressione, facendo leva sulla «sacra» alleanza calcistica con il Rionero, si è tentato di attribuire la responsabilità alla tifoseria melfitana, oggetto dell'imboscata, solo perché inserita tra quelle «indesiderate», «nemiche». In linea con quanto accaduto pochi minuti dopo la notizia della morte di Tucciariello: sugli spalti dello stadio di Catania, dove il Potenza giocava contro i padroni di casa, i sostenitori potentini si sono chiusi in silenzio e hanno abbandonato l'impianto. Senza chiedersi di chi fosse la colpa dell'incidente, senza tentare di capire la dinamica. Domenica scorsa, quando il quadro accusatorio era già chiaro e inequivocabilmente inchiodava i tifosi del Rionero, sono rimasti in silenzio per tutti i 90 minuti durante il match contro il Bisceglie, lasciando parlare solo lo striscione «incriminato».
Lutto prolungato per il fratello del tifo a cui dimostrare lealtà, spirito corporativo da ultras. Al di là di tutto, dei fatti, della violenza, delle accuse. Dietro questa linea di confine si collocano tutti quei cittadini che stanno raccogliendo fondi per sostenere le spese legali dei 24 tifosi rioneresi arrestati nell'ambito dell'inchiesta sull'agguato del 19 gennaio. Sono state avviate tre collette, due delle quali su internet: le donazioni vanno da 20 a 600 euro e sarebbero già state raccolte decine di migliaia di euro.
Un atteggiamento che dimostra come tutti i discorsi sulla violenza nel mondo del calcio, sull'assurdità di certi atteggiamenti, sulla necessità di cambiare registro siano dei concetti astratti. Chi raccoglie fondi per gli indagati, oltre a non spendere una parola di condanna per il «commando», si sta comportando come i sodali dei boss. E magari non sa neppure che rischia di commettere un reato: chiedere soldi per i carcerati non è un atto di elemosina, ma può rappresentare un'estorsione. Lo dice la Corte di Cassazione in riferimento a un episodio accaduto a Salerno: raccogliere contributi da destinare a detenuti uniti da un'accusa, secondo la Suprema Corte, contiene un'implicita minaccia perché evocativa dell'appartenenza a un gruppo. Un gruppo che con mazze e tirapugni ha agito per la visione distorta di una rivalità sportiva. Morire di calcio è già successo più volte. Ed è la morte più assurda che ci sia. Facciamo che non accada mai più.